Noi e gli altri animali. Dalla martora libidinosa all’ape pensante

Come è cambiato nel tempo il nostro modo di considerare gli altri animali? “Prima di Darwin”, spiega Giorgio Celli, etologo e docente di entomologia all’Università di Bologna, “si pensava che gli animali fossero delle creature parallele create da Dio per motivi molto vari. Nel primo Medioevo, per esempio, i bestiari descrivevano gli animali come esseri creati da Dio per fornirci degli esempi da imitare o da fuggire. Questi testi avevano intenti morali ed erano concepiti in maniera binaria: da un lato si davano dei dati sull’etologia dell’animale, spesso del tutto fantasiosi, dall’altra se ne traevano dei buoni consigli per la salvezza dell’anima”.

Sulla Terra, un sol uomo al comando

Per esempio, spiega l’etologo, si descriveva la martora come un animale libidinoso indicandola come un modello negativo, da non seguire. Oppure si mostrava lo struzzo che guardava il cielo, indice di cura vero il suo creatore, e poi si invitava ad imitarlo. “Poi c’è stata la lezione di Cartesio”, continua lo studioso, “che considerava gli animali come macchine. In base a questa visione, E dunque, se si dava un calcio a un cane e questo guaiva ciò non significava che provava dolore. La spiegazione era che, essendo un mero meccanismo, una volta percosso i suoi ruotismi emettevano un suono simile a un lamento umano, di cui però non aveva il significato”.

L’umanità dopo Darwin

Ma andiamo avanti: verso la metà dell’Ottocento, grazie a Darwin l’umanità scopre di essere imparentata con tutti gli animali, in modo più o meno stretto. La tesi è stata via via confermata dagli studi genetici, per cui oggi sappiamo che noi e lo scimpanzé abbiamo un antenato comune, dal quale ci saremmo separati 5 o 6 milioni di anni fa. E questo è dimostrato dal fatto che il Dna nostro e quello dello scimpanzé differiscono solo per una minima parte. Per Darwin, persino un animale come il lombrico, con il suo comportamento, dà prova di intelligenza.

Eppure l’uomo è ancora convinto di essere una creatura speciale, e sulla Terra continua a sentirsi il padrone di casa. Questo atteggiamento antropocentrico, ovviamente, non ha risparmiato gli scienziati, anche decenni dopo Darwin. Per esempio, quando si è scoperto che alcune scimmie potevano imparare il linguaggio simbolico dei sordomuti americani e interloquire con l’istruttore o quando si è scoperto che alcune scimmie potevano scrivere su una lavagna con degli oggetti che erano delle parole sintetiche, e quindi si impadronivano di un linguaggio simbolico, molti scienziati, semiologi soprattutto, hanno negato l’evidenza.  Sostenevano che gli animali potevano avere un loro pensiero ma non potevano attingere al pensiero simbolico. “Io, invece, direi che aveva ragione da vendere il vecchio Darwin quando affermava che il pensiero degli animali e il nostro differisce solo per quantità”, afferma l’etologo. Noi certamente con il numero di neuroni di cui disponiamo abbiamo un pensiero più vasto, una possibilità di astrazione maggiore. “Però, dal punto di vista della qualità gli animali pensano più o meno come noi. E quando dico animali intendo una vasta gamma: alcuni pensano di meno, altri di più”.

Api pensanti

Celli ha studiato la possibilità delle api di fare delle scorciatoie per raggiungere delle fonti di cibo: “Ebbene: ne sono capaci, e questo, significa che gli insetti hanno una mappa cognitiva. Di conseguenza hanno un mondo interno. E se hanno un mondo interno di questo tipo si può pure presumere un frammento di coscienza, e quindi le api pensano”. L’intelligenza quindi sarebbe diffusa a tutti i livelli: “Perfino le amebe, che sono organismi unicellulari, imparano che alcuni stimoli sono positivi e altri invece negativi”.

Ma vedere negli animali qualcosa di noi è un atteggiamento che l’evoluzione legittima? In parte sì, nel senso che condividiamo moltissimi geni e dunque possiamo pensare che abbiamo comportamenti simili e forse anche pensieri e mondi interni simili. Questo più nel caso dello scimpanzé che nel gatto. In realtà, nel caso del felino questo non è un atteggiamento scientificamente corretto, perché bisogna considerare che questo animale ha una sua etologia ben diversa da quella umana. “Naturalmente”, conclude lo studioso, “ci sono delle sovrapposizioni e degli sconfinamenti reciproci e quindi tutto sommato direi che la scienza dell’etologia va in bilico sulla corda come un equilibrista: da un alto deve essere un po’ antropomorfa perché legittimata dal pensare che nell’animale ci sia qualcosa anche dell’uomo, dall’altro deve guardarsi dal non esserlo troppo per non sconfinare in una illazione che la scienza non autorizza”.

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