Ombre nere sull’ecosistema

Tutti gli ecosistemi marini del Golfo del Messico risentiranno delle centinaia di milioni di litri di petrolio fuoriusciti dalla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum. E verranno alterati in maniera imprevedibile. Gli effetti, a più di 50 giorni dalla prima esplosione, sono infatti tutt’altro che noti, e tanto meno pronosticabili. Queste le conclusioni del convegno che si è tenuto a Washington lo scorso 8 giugno, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani istituita dalle Nazioni Unite.

Da un lato il contatto fisico con la sostanza, data la sua natura oleosa, porta al soffocamento, alla perdita delle attività sensoriali e all’alterazione degli equilibri termici. Dall’altro lato il greggio è altamente tossico e causa danni alla pelle, alle cellule del sangue, al sistema immunitario e a quello respiratorio. Al di là delle conseguenze dirette, poi, ci saranno quelle indirette, che interesseranno tutti i nodi della rete alimentare. Come ha sottolineato Celine Cousteau, nipote del celebre Jacques Cousteau ed esperta in conservazione degli ambienti marini, ci sono inoltre da considerare gli effetti subletali che, sebbene non portino alla morte, riducono notevolmente le capacità riproduttive e hanno dunque profonde ripercussioni a livello ecosistemico.

Oltre al greggio in sé, a fare ancora più paura alla comunità scientifica è la totale mancanza di informazioni sugli effetti delle interazioni tra il petrolio e gli agenti disperdenti usati per limitare la formazione delle chiazze di superficie (vedi Galileo). Secondo Thomas Shirley,  professore della Texas A&M University, le sostanze utilizzate potrebbero causare altri danni agli animali, facilitando l’ingresso dei componenti tossici nella catena alimentare. Uno dei timori principali, infatti, è rappresentato dal fatto che le micro-gocce generate dall’interazione petrolio-agenti disperdenti possano avere un effetto altamente tossico per il gradino più basso della rete ecologica, vale a dire il plancton. “Questi minuscoli organismi sono la base dell’intero ecosistema marino – ha commentato Robert Twilley, docente alla Lousiana State University – e i loro continui movimenti tra acque profonde e acque di superficie li espongono a enormi quantità di micro-gocce”.

Le sostanze tossiche così si potrebbero accumulare nei vari animali, dalle larve dei pesci e dei gamberetti a quelle dei granchi, fino ad arrivare alle tartarughe e ai grandi mammiferi, attraverso un processo noto come biomagnificazione. “E in questo caso – ha sottolineato Shirley – la perdita sarebbe incalcolabile, vista la lentezza del ciclo riproduttivo di animali come il capodoglio e la tartaruga di Kemp, che inizia a riprodursi verso il nono anno d’età” (per una panoramica sulla biodiversità nel Golfo del Messico si veda il sito dell’Harte Research Institute Gulf of Mexico Studies).

L’unica nota positiva viene dal fatto che l’ecosistema del Golfo del Messico è in parte abituato al petrolio. Nella zona si verifica una dispersione di greggio continua, come ha ricordato Twilley: “Ogni anno si riversano nel Golfo decine di milioni di litri di petrolio e, per questo, esistono batteri specializzati nel metabolizzarlo”. Sebbene non possano azzerarne gli effetti, questi batteri potrebbero accelerare la convalescenza degli ecosistemi. È però estremamente difficile fare previsioni. A ventuno anni dalla tragedia della Exxon Valdez in Alaska (in cui da una petroliera finirono in mare 40 milioni di greggio, vedi Galileo), i danni si fanno ancora sentire e gli animali continuano a morire.

Il pericolo riguarda anche le specie migratorie del Mediterraneo, in particolare il tonno rosso, specie già ridotta al 20 per cento a causa dello sfruttamento ittico. I giovani, infatti, trascorrono parte della loro vita proprio nel Golfo del Messico (vedi Galileo). Il tonno che verrà pescato il prossimo anno potrebbe quindi essere contaminato.

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