Omicidi di Stato

Anno 2000, ovvero un mondo che si dice globalizzato, che abbatte le frontiere a colpi di mouse. Ma la nuova era è chiamata a dirimere alcune contraddizioni, specie nel campo del diritto internazionale. Sì, perché i concetti di diritto e giustizia assumono connotazioni diverse, a volte stridenti, quando attraversano i confini nazionali. Un caso emblematico è la pena di morte: per alcuni paesi, tra cui l’Italia, orrore etico e violazione del diritto universale alla vita. Per altri, Usa e Cina su tutti, semplice scelta di politica criminale, che permette di costruire brillanti carriere politiche. Un nodo, questo, che deve essere sciolto rapidamente. Perché in una realtà che vuole essere globale e civile è intollerabile che minorenni siano condannati a morte o che furti d’auto e adulteri possano essere puniti con l’uccisione. Ma anche che uno Stato possa sentirsi autorizzato a privare della vita un assassino plurimo. Come? Spostando la discussione sul piano degli argomenti razionali, mostrando che la pena di morte non è un deterrente maggiore di altre pene detentive. Facendo informazione. Sono queste le indicazioni di Antonio Marchesi, ex-presidente della sezione italiana di Amnesty International e ricercatore di diritto internazionale all’Università di Teramo, che Galileo ha intervistato.

Pena di morte. Qual è la situazione attuale nel mondo?

Ogni anno vengono eseguite circa duemila esecuzioni. Formalmente sono quasi 90 i paesi che prevedono la pena capitale, ma sono molti meno quelli che veramente la attuano. In alcuni casi, la pena è prevista solo per reati militari, in altri si ha una abolizione de facto, ovvero da oltre 10 anni non viene comminata né eseguita alcuna condanna a morte. Il dato su cui riflettere, invece, è che un esiguo gruppo composto di soli quattro Stati è responsabile dell’80 % delle esecuzioni: Stati Uniti d’America, Cina, Iran e Repubblica democratica del Congo.

E in questi paesi il tasso di criminalità risulta più basso che altrove?

No. Non esiste anzi alcuno studio in grado di dimostrare che la pena di morte sia un deterrente maggiore rispetto ad altre pene detentive. Ma, oltre ai dati statistici, il fatto che la pena di morte non inibisca i crimini violenti si può spiegare anche con alcune semplici considerazioni: la maggior parte degli omicidi avviene in uno stato “passionale” di alterazione psicologica. E’ allora difficile pensare che chi commette questo tipo di assassinii valuti il tipo di pena a cui va incontro. Altre considerazioni valgono per i reati di terrorismo: chi compie un attentato mette già in conto la possibilità di morire in azione, se non ne è addirittura sicuro come nel caso dei kamikaze. La possibilità di essere condannato a morte, insomma, non può spaventare i terroristi, anzi spesso li rende eroi agli occhi dei combattenti. Si potrebbe credere che l’esecuzione possa essere un buon deterrente per i grandi boss del commercio di droga, ma anche in questo caso bisogna pensare che chi pianifica meticolosamente un impero miliardario di morte, non crede di doverne subire le conseguenze: ha la prospettiva di farla franca e non mette in conto di poter essere arrestato e condannato. Pena di morte o pena detentiva severa non fa grande differenza ai loro occhi.

Bisognerebbe garantire allora la certezza della pena, più che la sua durezza.

Se, in media, solo tre persone su cento che commettono gravi reati vengono arrestate e condannate è evidente che 30 anni di carcere o pena di morte non sono una differenza rilevante: è molto più forte, per i criminali, la prospettiva di far parte di quel 97 per cento che rimane impunito. E la prassi lo dimostra.

Eppure, nel mondo, la pena di morte non viene comminata solo per reati gravi

Molte delle esecuzioni in Iran sono eseguite per reati d’opinione, nei Paesi Arabi per adulterio, in Cina anche per furto e truffa. Però bisogna tenere conto che la pena di morte colpisce non tanto perché i reati siano poco gravi: negli Stati Uniti, per esempio, le condanne sono quasi sempre per omicidio plurimo o aggravato. Ciò che invece spaventa è l’arbitrio con cui tale condanna viene inflitta ed eseguita: per lo stesso reato c’è chi viene giustiziato e chi no. Se si guarda al totale dei detenuti americani nel braccio della morte è evidente che c’è una forte discriminante razziale e sociale nel comminare le condanne.

Esisterebbe allora una sorta di “caccia al diverso” che, trovando consenso nell’opinione pubblica, legittimerebbe l’azione dei governatori?

La pena di morte comminata al “diverso” è l’effetto di un’esigenza inconscia di epurazione verso chi è già un emarginato sociale. E negli Usa è più facile che sia un nero o un afro-americano. Non è però prevalentemente una questione di colore della pelle: è la società che vuole “fare pulizia” di quelle che considera scorie o elementi di degrado. D’altro canto è vero che chi viene condannato a morte, di solito, non può permettersi un buon avvocato. Ci sono addirittura casi di condannati i cui difensori si sono addormentati durante il dibattimento, e in cui il giudice che ha inflitto la pena ha dichiarato che “ognuno ha diritto a un avvocato, ma non è detto che debba rimanere sveglio”. E meno del 10 per cento dei quasi tremila detenuti americani nel braccio della morte aveva un conto in banca al momento dell’arresto. Nei rari casi in cui, invece, una persona che non risponde a queste caratteristiche viene accusata di un reato capitale, un buon avvocato è sufficiente a evitare la condanna a morte.

Come valuta questo modello di gestione della giustizia negli Usa?

E’ una giustizia che a noi appare ben strana, nonostante le istituzioni politiche e giuridiche siano molto evolute: giurie popolari, procuratori elettivi e via dicendo. L’opinione pubblica, insomma, pesa sull’amministrazione del diritto più di quanto faccia nei Paesi europei, e più di quanto, a mio avviso, dovrebbe fare. Ripeto però che, nonostante ciò, è l’arbitrarietà a colpire: un buon avvocato che presenta i ricorsi in tempo utile, che si sa muovere bene nelle procedure processuali, che non si addormenta e che magari tiene al fatto che la sentenza sia favorevole cambia molto l’esito dei processi

A livello internazionale come valuta invece l’istituzione della pena di morte?

E’ una violazione del diritto alla vita, che è strumentale a tutti gli altri diritti umani. Del diritto alla vita fanno parte anche il diritto all’integrità psico-fisica, alla dignità personale, insomma tutto ciò che permette a un individuo di esistere e di poter essere considerato, comunque, una persona. E che un singolo Stato possa negarlo è inammissibile: il diritto alla vita dovrebbe rientrare in quel nucleo fondamentale di valori su cui gli esseri umani dovrebbero essere tutti d’accordo. Per motivi storici, politici e filosofici, la dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 riconosce il diritto alla vita, senza però purtroppo condannare la pena di morte, definita a volte “eccezione legittima” o “privazione non arbitraria della vita”

Quando si cerca di impedire una esecuzione, però, si invoca spesso il diritto a non subire crudeltà o torture, più che quello alla vita

Da circa un ventennio, il problema della pena di morte viene inquadrato anche nell’ambito del diritto a non subire trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Questa evoluzione ha una spiegazione giuridico-politica: la convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nell’articolo 2 della convenzione, infatti, si riconosce il diritto alla vita, escludendo esplicitamente il caso della pena di morte. Solo un protocollo aggiuntivo (il numero 6 del 1983) vieta esplicitamente le esecuzioni, ma non è stato ratificato da tutti i Paesi. Nell’articolo 3 della convenzione, invece, viene riconosciuto il diritto a non subire torture. Visto allora che qualsiasi tipo di esecuzione è comunque una forma di tortura – basta pensare alla violenza psicologica che per anni subisco i condannati in attesa di esecuzione nel braccio della morte, spesso anche in isolamento – e a volte anche fisica, si fa leva su quest’aspetto per fermare le esecuzioni. Come nel caso Soering, in cui la Gran Bretagna negò l’estradizione di un cittadino verso gli Stati Uniti, facendo valere proprio il diritto a non subire torture

Quindi è una scelta pragmatica?

Amnesty International è un’associazione di persone contrarie alla pena di morte. Per fermare le esecuzioni e convincere altre persone ad essere contrarie, bisogna lavorare su diversi piani. E così, se da un lato Amnesty afferma che la pena capitale deve essere abolita per sempre e ovunque, in base a principi etici e filosofici, dall’altro presenta un ricorso al singolo governatore del singolo stato puntando sull’innocenza dell’imputato o su qualsiasi argomento che possa salvare quella vita

Dal punto di vista del diritto internazionale, però, è l’adesione al diritto alla vita la chiave per l’abolizionismo totale

La singola misura legislativa non è sufficiente. Può però anticipare un’idea successivamente accettabile dall’opinione pubblica. La condizione necessaria è quella di creare uno zoccolo duro di coscienze profondamente contrarie alla pena di morte, in modo da rendere eventuali scelte abolizioniste non reversibili. Bisogna insomma lavorare in tutte e due le direzioni contemporaneamente: fermare le esecuzioni da un lato e creare consenso nelle persone dall’altro. Il problema della pena di morte assume però una dimensione internazionale, dal punto di vista giuridico e politico, solo se si inquadra nel contesto della protezione dei diritti umani. Se invece è solo un problema di politica criminale, ogni singolo stato decide come vuole e le armi per l’intervento internazionale sono molte spuntate

Come si lavora in questa direzione?

Io credo che gran parte dell’appoggio verso la pena di morte abbia una forte base istintiva, viscerale, combinata con tanta disinformazione. Vale insomma l’idea che questa pena serva a qualcosa. E’ difficile allora vincere la battaglia abolizionista sul campo degli istinti. Bisogna cercare di spostare il dibattito in un ambito più razionale: l’abolizionismo è infatti assolutamente vincente sul terreno delle argomentazioni razionali. E’ per questo che spesso i parlamenti sono più avanti rispetto all’opinione pubblica: perché sono informati e perché sono costretti a ragionare sull’efficienza della pena. E’ invece pericoloso quando ci sono leader politici che cavalcano gli istinti della popolazione, come quelli americani. Anche in Italia, fino a qualche anno fa, gli esponenti della destra cedevano a questa tentazione

Oggi, invece, qual è la situazione nel nostro paese?

Molto migliore. Il caso Venezia è un esempio chiarissimo: gli Usa avevano chiesto di poter processare un cittadino italiano, palesemente colpevole, ma il governo italiano ha posto come condizione per l’estradizione la garanzia che non fosse condannato a morte. Questo significa che l’Italia ha dimostrato di aderire all’idea che la pena di morte sia una violazione del diritto universale alla vita. Altrimenti avrebbe permesso agli Usa di attuare la loro politica verso i criminali, rispettandone la scelta. Per fortuna, invece, la posizione italiana è stata altamente apprezzabile. Bisogna però continuare a lavorare a livello mondiale: informando, divulgando e offrendo all’opinione pubblica strumenti razionali per capire la necessità dell’abolizione delle esecuzioni sul pianeta.

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