Omo I, il primo dei progenitori

Ha 196 mila anni l’Homo sapiens più antico. Dal 1967, quando i suoi resti erano stati ritrovati, aveva nascosto la sua vera età. Ora però, un’équipe di paoleontologi e antropologi l’ha svelata. Per farlo, ha dovuto chiamare in causa piene del Nilo, eruzioni vulcaniche, e sedimenti nel fondo del Mediterraneo. Tutto per datare con esattezza un fossile scoperto in Etiopia quarant’anni fa. Ne è valsa la pena, però. I ricercatori affermano, nell’ultimo numero di “Nature”, che si tratta del più “antico uomo moderno” finora conosciuto.Quando venne scoperto, si stimò che poteva avere 130 mila anni. A partire dal 1999, però, i geologi Frank Brown e Ian McDougall, e l’antropologo John Fleagle, sono ritornati più volte in Etiopia. Lo studio degli strati nei quali il fossile era rimasto intrappolato per millenni, ha permesso di trovarne alcune parti nuove: un femore, che si aggiunge al teschio e alle parti di braccia e gambe, che erano già finiti al museo nazionale del paese africano. Ma soprattutto ha consentito di valutare esattamente la sua età. Ottenendo un risultato sorprendente: i resti sono assai più antichi di quanto si credesse. E non sono troppo distanti, nel tempo, dal momento in cui sarebbe apparsa per la prima volta l’anatomia attuale dell’essere umano (circa 200 mila anni fa, secondo diverse teorie genetiche).La datazione ha richiesto molta abilità. Il sottosuolo di Kibish, dove è stato scoperto, è caratterizzato da almeno quattro strati, spessi diversi metri. Gli strati sono il risultato delle antiche inondazioni del vicino fiume Omo. In ciascuno di essi sono rimaste intrappolate le ceneri di eruzioni vulcaniche. “Queste sono un indizio prezioso”, spiega Brown. “Nella pomice delle eruzioni c’è una piccola percentuale di materiale radioattivo, il potassio-40. Questo “decade”, trasformandosi in argo-40, a un ritmo ben noto. Misurando quanto potassio è presente, allora, si può calcolare quanto tempo è passato dall’eruzione”. Se si datano le ceneri vulcaniche, poi, si riesce a dare un’età a tutto lo strato di sedimenti, perché i periodi di piena si verificavano molto rapidamente ed erano separati da ampi intervalli di secca. È per questo che ogni stato è più vecchio del superiore di migliaia di anni. Brown e colleghi, allora non hanno fatto altro che datare lo strato nel quale si trovava il fossile, e così hanno stimato la sua età.Per essere sicuri del risultato, hanno cercato una controprova. Le piene del fiume Omo erano, in realtà, una conseguenza di quelle del Nilo. Queste ultime si possono datare con precisione, perché, attraverso il delta, gettavano sul fondo del mediterraneo ampi strati di rocce nere, i sapropel. La datazione dello strato che imprigionava il fossile coincide esattamente con quella di uno strato di sapropel rilevato al fondo del Mediterraneo.Il fiume etiope ha dato il nome allo scheletro, che i ricercatori chiamano Omo I. Il numero viene dal fatto che accanto a lui è stato trovato Omo II, dello stesso periodo, ma dall’anatomia assai più arcaica. La contemporaneità dei due scheletri conferma una visione che si va diffondendo sempre di più fra paleontologi e antropologi: molto probabilmente diversi tipi di “homo” hanno convissuto a lungo sulla Terra. La diversità nella struttura fisica potrebbe far ipotizzare che si tratti addirittura di un’altra specie. La retrodatazione dei fossili ha anche una rilevante conseguenza antropologica. Le prime tracce di cultura umana risalgono a 50 mila anni fa. Il nuovo risultato implica che la “modernità” culturale sarebbe apparsa molto prima di quella anatomica. Contrariamente a quanto ritingono varie teorie finora in voga.

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