Open Science in Italia: apertura sì, ma con cautela

In una società iperconnessa come la nostra, in cui Internet regna incontrastato, diventa sempre più vitale l’accesso ai dati. Nascono (e sono nate) così forme di sapere cooperanti basate sui new media, che permettono una diffusione capillare delle informazioni. Open Access (Oa), trasparenza, creative commons, wiki, partecipazione: sono queste le parole chiave che ora s’impongono con forza nella discussione pubblica, anche in campo scientifico dove l’esigenza di condivisione è sempre più sentita. E oggi i sostenitori dell’Open Science si moltiplicano, rivendicando una ricerca più produttiva, egualitaria e democratica. Ma in Italia qual è la situazione? Apertura significa davvero democraticità? Ne abbiamo parlato con Alessandro Delfanti, ricercatore presso la McGill University di Montreal in Canada, che si occupa di scienza aperta e comunicazione. Ecco cosa ci ha raccontato.

Dott. Delfanti, in Italia, quanto è importante Internet per la ricerca?

“In Italia, come nel resto del mondo, in molti settori scientifici ormai non è più possibile separare la ricerca da Internet. Lo stesso vale per molti altri ambiti culturali, ma per la ricerca questo legame è forse ancora più evidente. Le due sfere si sono coevolute e oggi sono fondamentalmente inscindibili e interdipendenti. La genetica, per esempio, senza reti non sarebbe di certo quella che conosciamo oggi”.
 

E l’ingresso di Internet nel mondo della ricerca cosa ha significato per gli scienziati?

“Per quanto riguarda il modo in cui i lavori degli scienziati vengono accreditati, il cambiamento è stato piuttosto piccolo, poiché si tratta sempre di pubblicare studi in forma di paper e poi utilizzarli per la propria carriera all’interno delle istituzioni. Il cambiamento è collaterale, ma visibile: i set di dati stanno diventando importanti forme di pubblicazione del proprio lavoro e spesso sostituiscono le riviste. In parallelo, anche le metriche alternative stanno assumendo grande rilevanza: oggi non sono solo le citazioni ‘ufficiali’ a determinare il successo, ma anche la risonanza di un paper nella blogosfera o sui social media”.
 
Cosa accade quando gli scienziati mettono a disposizione dati e processi?

“E’ come se le pareti dei laboratori crollassero, aprendo la strada a peer review su larga scala. E credo innanzitutto che questa maggiore trasparenza sia un bene per la ricerca italiana, poiché si tratta sia di favorire l’uso di forme di pubblicazione open access per gli studi, sia l’accesso ai dati scientifici. Ci sono diverse ragioni per questa scelta: una è la possibilità di aumentare il controllo collettivo sul lavoro dei colleghi, proprio sfruttando il meccanismo della revisione su larga scala. La peer review per come funziona attualmente resta un buono strumento, ma non è più sufficiente. Con i media digitali, infatti, molte più persone rispetto ai due o tre canonici referee possono avere accesso e discutere o criticare un lavoro, modificando i processi ordinari”.

Chi sono in Italia i sostenitori dell’open access?

“Sono spesso i ricercatori stessi. Ci sono alcuni nomi più visibili, ma credo che gran parte della ricerca italiana sia favorevole ad aumentare il grado di ‘apertura’ della scienza. Anche alcune istituzioni hanno cominciato a lavorare in quella direzione, ma oggi non è più lasciato tutto in mano loro. Spesso sono organismi con poteri maggiori ad affrontare la questione; ci sono politiche più globali di accesso aperto, come quelle legate al programma Horizon2020 dell’Unione Europea”.

L’affermarsi definitivo di una scienza aperta, basata sul Web, che impatto avrebbe nel nostro paese?

“Scienza aperta è un termine ombrello che include pratiche molto diverse, dall’open access alla letteratura scientifica, fino alle nuove forme di cooperazione basate sulla rete e di inclusione dei cittadini nell’impresa scientifica. Di conseguenza, anche i loro effetti o le forze che le guidano sono molto differenti. Invito però a diffidare di chi  sostiene che l’apertura sia di per sé democratica per natura: non è prudente sbilanciarsi con affermazioni di questo genere, ci sono troppe variabili in gioco”.

Perché, quali sono i pro e i contro di quest’apertura?

“Gli esempi possibili sono innumerevoli. Nel tentativo d’inquadrare la situazione, si può dire che la nascita di nuove forme di cooperazione in rete potrebbe probabilmente rendere più produttiva la ricerca. Un altro aspetto positivo è che la trasparenza fornisce più mezzi per il controllo diffuso dei risultati scientifici e dell’uso che se ne fa. Nel caso dei trial farmaceutici, per esempio, la collaborazione è decisiva per estendere l’area di ricerca e compiere studi più approfonditi. Il problema, d’altro canto, è che se ci si focalizza solo sull’apertura si rischia di non vedere altre questioni cruciali che affliggono la ricerca italiana: il sotto finanziamento, per dirne una, dovuto ai tagli ingenti degli ultimi decenni. La scienza aperta, poi, costa e può non dare risultati immediati. Una domanda è: cosa ne facciamo dei set enormi di Open Data? In quest’ottica non è chiaro al 100% se aprire i dati abbia sempre un effetto positivo. In effetti quello dell’Open Science è un tema ancora in evoluzione, che, in futuro, potrà rivelarci delle sorprese. Non ci resta che attendere”.

Credits immagine: biblioteekje/Flickr

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