Perché alcune parole cambiano rapidamente e altre no, mantenendo spesso lo stesso significato anche in lingue diverse? E perché alcuni verbi inglesi rimangono “testardamente” irregolari, per la frustrazione degli studenti di tutto il mondo? Due studi pubblicati sul numero di Nature di questa settimana analizzano la frequenza di utilizzo delle parole nel contesto evolutivo del mondo occidentale e le modalità attraverso cui i predicati diventano regolari nel corso del tempo.
Il quadro di partenza è certamente differenziato. Per esempio esistono vocaboli, come “uccello” o “coda”, espressi in dozzine di modi diversi e slegati da paese a paese, mentre altri – come “tre” o tutto ciò che indica l’acqua – che partono dalla stessa radice o da forme correlate nell’ambito della comune matrice linguistica indoeuropea. Evoluzioni molto differenti, dunque, ma che nessuno, finora, è stato in grado di spiegare.
Mark Pagel, professore di biologia evolutiva dell’università di Reading, ha applicato, così, un modello di analisi statistica a quattro lingue del ceppo indoeuropeo (inglese, spagnolo, russo e greco) e, tramite questo, comparato un database di 200 vocaboli fondamentali espressi da 87 idiomi diversi. Secondo Pagel esistono alcune categorie di parole di uso comune, come i numeri, la cui alta frequenza di utilizzo ha influito sul loro basso tasso di sostituzione nel corso di migliaia di anni.
Una conferma indiretta di questa teoria è arrivata da un secondo studio quantitativo di Martin Nowak, biomatematico dell’Università di Harvard, che ha cercato di stabilire la percentuale di verbi inglesi divenuti regolari nel tempo. Anche in questo caso a influire sulla loro trasformazione è la frequenza di utilizzo. Dei 177 verbi irregolari della vecchia lingua inglese solo 98 sono rimasti tali ancora oggi. Nowak ha calcolato quanto ognuno di essi sia di uso comune, scoprendo che i termini meno utilizzati tendono più velocemente ad assumere una forma regolare. (l.s.)
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