Più dubbi che certezze

Mai come in questo momento la scienza viene invocata come toccasana per rispondere agli interrogativi sulla salubrità della carne che mangiamo, e mai come in questo momento a chi chiede il bianco o il nero si risponde con una delle infinite sfumature del grigio. Il fenomeno denominato “mucca pazza”, infatti, inquieta l’Europa, non solo a livello di opinione pubblica, ma anche di scienziati. Perché una cosa è certa: il problema è sconcertante, e ancora non definito sotto il profilo scientifico. Questo, malgrado esso sia stato rilevato, anche come serio problema e quindi da non sottovalutare, da una quindicina di anni. Se ne è parlato, in Gran Bretagna sono stati abbattuti animali a migliaia già nel 1986 proprio per fronteggiare questa bizzarra e temibile vicenda. Malgrado, quindi, il mondo scientifico sia edotto dell’esistenza del problema (nel progetto Chimica Fine Cnr da me diretto attivammo un gruppo di ricerca affidato a Maurizio Pocchiari e Maurizio Brunori fin dagli anni Ottanta) su questa malattia regna l’incertezza. In altri termini, non si hanno molti elementi scientificamente solidi sulle cause, sullo sviluppo, sui modi di diffusione di questa malattia.

Cerchiamo di vedere i punti di fondo. Innanzitutto, per quanto riguarda la trasmissione, si tratta di qualcosa di insolito, ed ancora non definitivamente accertato. Infatti, in genere le malattie non si trasferiscono da una specie all’altra, salvo in casi molto rari. Un esempio è la rabbia, che si trasmette dalle volpi ai cani e dai cani all’uomo, ma questo avviene attraverso il sangue a seguito di un morso. Il morbo della mucca pazza invece sembra trasmettersi per via orale da specie fra loro diverse, dalla pecora ai bovini, da questi (sembra, ma non è certo) agli uomini. Principali imputati (non ancora dichiarati colpevoli con certezza) i mangimi a base di farine animali, all’uso improprio dei quali è attribuita l’origine dei problemi: i bovini sono erbivori, ma vengono alimentati come carnivori. Primo problema: quale è la specie molecolare che viaggia seminando disastri, e attraverso quali modalità? L’ipotesi più accreditata è che si tratti di un particolare tipo di proteine, dette prioni, che assumerebbero una forma spaziale anomala, e che si riprodurrebbero inducendo una degenerazione delle proteine “normali” causando la malattia.

Sul piano strettamente chimico, pur con beneficio di dubbio, sembra potersi affermare che la modifica in questione riguarda lo scambio di due degli aminoacidi che compongono la proteina. In particolare, uno scambio fra asparagina e acido aspartico. Sorgono molte perplessità. La prima: le proteine in genere vengono disgregate nell’apparato digerente. Nel caso in questione, non solo non verrebbero disgregate, ma potrebbero passare nel sangue. Seconda questione: quando una proteina estranea passa nel sangue (una trasfusione con gruppo sanguigno diverso, per esempio) l’organismo riconosce la proteina come estranea e reagisce con fenomeni di immunizzazione anche molto violenti. Come mai in questo caso non si verifica questa reazione? Esistono ipotesi e vaghe analogie, ma la verifica di queste ipotesi è resa particolarmente difficile dal fatto che la malattia sembra avere un tempo di sviluppo molto elevato, e i nessi di causa ed effetto in casi del genere sono difficilmente ricostruibili: una analogia è data dall’Aids, che a sua volta si sviluppa nell’arco di anni, il che rende difficile risalire all’episodio scatenante. Che potrebbe essere anche una molecola piccola, eventualmente con incorporato qualche metallo, che potrebbe, essa sì, passare tutte le barriere e scatenare la formazione degenerativa di prioni.

Nessuna certezza, quindi, ma solo ipotesi. Come difendersi? Occorrono analisi a tappeto, ma questo è un altro, serio problema, perché i casi sono rari, e difficili da identificare fra la moltitudine di animali. Anche ammettendo una piena collaborazione da parte degli allevatori nel denunciare immediatamente i casi sospetti, i saggi richiedono una certa competenza, attrezzature e materiali. Nulla di sconvolgente, ma la quantità di test da effettuare è straordinariamente elevata, e richiede uno sforzo adeguato per un esame su vasta scala. Sforzo che a livello delle strutture sanitarie si sta effettuando con efficienza così come si sta ampliando la collaborazione scientifica fra medici, biologi e chimici degli istituti che fanno capo al Ministero della Sanità, al Cnr, all’Istituto della Nutrizione, in un contesto di collaborazione a livello europeo. Scopo: chiarire i punti oscuri, trovare test rapidi e sicuri, meglio se sull’animale vivo, circoscrivere i limiti di questo problema così diverso da quelli finora conosciuti.

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