Play, si gioca

Quando nel 1961, Steve Russell stava armeggiando al computer probabilmente non si rendeva conto di quello che stava facendo. Lo studente del Massachusetts Institute of Technology, mettendo a punto il programma Spacewar, aveva infatti inventato il primo videogame della storia. Il meccanismo era molto semplice: due astronavi, vagando nello spazio, tentano di distruggersi. Dopo 41 anni molte cose sono cambiate e ciò che prima era un puro e semplice divertimento di qualche informatico ora è diventato un autentico business. Per capire i motivi e gli effetti di questo cambiamento al Palazzo delle Esposizioni di Roma è stata allestita la mostra “Play”(24 aprile – 10 luglio 2002) che ripercorre l’evoluzione tecnologica e narrativa del mondo dei videogiochi. Ne abbiamo parlato con il giornalista e scrittore Jaime d’Alessandro, uno dei curatori dell’evento.

Jaime D’Alessandro, qual è stata l’influenza dei videogiochi sullo sviluppo dell’hardware e del software di facile utilizzo, chiamato “user friendly”?

“Nessuna forma di espressione ha un rapporto altrettanto stretto con la tecnologia come i videogiochi. E lo scambio di idee e tecniche è reciproco. Effettivamente l’interfaccia fra il videogame e il giocatore si è sviluppata in modo da diventare il più possibile intuitiva. Per esempio la celebre software-house Lucas ha sviluppato i primi programmi che si avvalevano del cosiddetto punta e clicca. La Nintendo, invece si è specializzata nelle console. Con le console lo sviluppo di interfacce intuitive è facilitato, mentre per quanto riguarda i Pc, sebbene siano stati fatti dei passi avanti, il sistema è ancora piuttosto complesso. Per giocare bene avvalendosi di mouse e tastiera è ancora necessario un lungo periodo di allenamento”.

Shygeru Miyamoto, game designer della Nintendo, ha dichiarato che la tecnologia, che un tempo rappresentava un limite, si è trasformata in una potenza illimitata. Che cosa ne pensa?

“I primi giochi erano fortemente condizionati dall’hardware, oggi la potenza è tale che spesso si ha una vera e propria ubriacatura da effetto digitale. Bisogna manipolarla in modo corretto, e non tutti lo sanno fare. Così capita che ci siano storie che non reggono la bellezza degli effetti che usano. D’altro canto, questo è quanto accade sempre quando si verifica un’innovazione espressiva”.

Internet ha esercitato un impatto fondamentale sul mondo dei videogiochi negli ultimi anni?

“Sì. Infatti, non c’è niente di più bello che giocare in Rete: in questo caso, l’avversario è umano. Internet offre possibilità di relazione con gli altri giocatori: e così si formano squadre, clan, e si è giunti a fare delle Olimpiadi del Videogame. La variabile umana arricchisce a tal punto il videogioco on-line che questo ha una vita commerciale media più lunga degli off-line. Un altro fenomeno interessante è quello del mod, la modificazione dei giochi off-line. Il videogame più giocato della Web è Counterstrike, realizzato da un gruppo di ragazzini”.

Quali sono le ragioni dello straordinario successo della Playstation?

“Quello della Playstation è stato soprattutto un successo di stile. Non di tipo tecnologico: esistevano già consolle più potenti. Sicuramente il marketing ha giocato un ruolo importante, fornendo alla Playstation un’immagine per così dire adulta. Ma il lancio è stato sostenuto anche da videogiochi all’altezza delle promesse. Questi si avvalgono massicciamente di computer-grafica, soprattutto nelle sequenze introduttive, che usano tecniche di vero e proprio montaggio cinematografico. Questa grafica supporta storie che, come nel caso di Tomb Rider, traggono i loro temi da soggetti di grande successo (immaginario new age o film come “I predatori dell’arca perduta”)”.

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