Società

La narrativa salva i medici dal burnout

“Bisogna umanizzare la pratica medica non solo per migliorare l’esperienza di cura dei pazienti ma anche per alleggerire il carico emotivo che molti medici si trovano ad affrontare”. Così scrivono Caroline Diorio e Małgorzata Nowaczyk in un articolo apparso di recente sulla rivista Pediatrics che invoca l’introduzione della medicina narrativa nei corsi universitari come antidoto  del burnout dilagante nelle professioni sanitarie. Perché, se è vero che la sindrome da burnout è alimentata da fattori esterni come orari, carichi di lavoro eccessivi e, non ultimo, l’eccesso di burocrazia, è anche vero che i medici oggi più che mai non sono preparati ad affrontare la dimensione più umana del loro lavoro: la sofferenza e la morte. Al contrario, osservano le pediatre, generalmente nel corso della formazione viene insegnato loro a non essere empatici, a diventare insensibili alle emozioni.

Il peso delle emozioni

Secondo Diorio e Nowaczyk, la medicina narrativa può fornire ai futuri medici strumenti, capacità e competenze che li aiutino a essere più empatici nel rapporto con il paziente e, al tempo stesso, resilienti allo stress, in primis quello emotivo e psicologico. Oncologa pediatrica al McMaster Children’s Hospital di Hamilton, in Canada, Diorio ha ancora vivido il ricordo della difficoltà avuta nel superare la morte di una sua piccola paziente quando era al terzo anno di tirocinio. All’epoca, un collega con il quale si era confidata, le rivelò di sentirsi sollevato dal sapere di non essere il solo a soffrire in quella circostanza: “Era disperato per la perdita di quella sua prima paziente: non si era mai sentito così triste e, per questo, si sentiva in colpa”. Il consiglio di medico “mentore” era stato quello di “non sentire mai più del 50% della tristezza provata dai familiari del paziente”!

La medicina narrativa, ricordano le due pediatre, non è solo ascolto del paziente ma anche scrittura: un esercizio riflessivo che può essere una terapia per il medico: scrivere della morte di un paziente, per esempio, può aiutare a elaborare il lutto. Ma, in generale, la scrittura affina le capacità di osservazione e rinforza il legame con il paziente.

Burnout, quasi un’epidemia

Il burnout è una sindrome che colpisce particolarmente le professioni assistenziali e si manifesta variamente come esaurimento emotivo, irritabilità, depressione, senso di inadeguatezza, riduzione di autostima. Colpisce soprattuto nei primi anni di attività, e può avere esiti estremi, se si pensa che negli Usa tra i medici “resident” il tasso di suicidi è doppio che in tutte le altre professioni, tre volte più frequente nelle donne rispetto ai colleghi uomini (Jama 2018). E alcuni specialisti – oncologi, chirurghi, medici di pronto soccorso – sono più a rischio di altri. Uno studio del 2017 condotto da Esmo (European Society for medical Oncology) su 737 oncologi a inizio carriera in 41 paesi, ha rilevato nel 71% dei professionisti una forte condizione di burnout.

“Noi medici non siamo invulnerabili come ci piace credere”, dice Beniamino Palmieri, docente di Chirurgia generale all’Università di Modena e Reggio Emilia che qualche anno fa ha dato vita alla rete Medico cura te stesso. “Molti medici lavorano 50-60 ore a settimana”, ricorda il chirurgo, “ma il sovraccarico non è solo di fatica: c’è quello emozionale e, sempre di più, c’è il peso della burocrazia e dei conflitti tra colleghi. A tutto ciò si sommano fattori culturali che rendono più difficile per i dottori chiedere aiuto”. E i più a rischio sarebbero proprio quelli che dedicano la vita al lavoro, sempre pronti a correre in ospedale e sostenere turni massacranti.  Con conseguenze sulla propria salute e su quella del paziente. Un medico stressato non solo è meno disponibile al dialogo, ma rischia più facilmente di commettere errori, anche fatali, come denunciano due studi pubblicati su Mayo Clinic Proceeding nel 2017 e nel 2018.

La resilienza s’impara scrivendo e condividendo

“Avere il senso di quello che si fa è un fattore protettivo contro il burnout”, dice Douglas Reifler, docente del corso di anatomia alla Lewis Katz School of Medicine della Temple University di Philadelphia, commentando per l’agenzia Reuters l’articolo su Pediatrics. “La narrativa permette ai medici nutrire e mantenere saldo il significato del loro lavoro, che rischia di perdersi nella affannata routine quotidiana, se non si affronta in modo costruttivo ”. Reifler utilizza la medicina narrativa in tutti i suoi corsi, compreso quello di anatomia del primo anno di università.  In generale, agli studenti che stanno facendo pratica clinica chiede di scrivere di quell’esperienza e dell’impatto che ha su di loro, e poi di condividerla con i colleghi. Ma agli studenti del primo anno chiede di scrivere proprio della loro esperienza con la dissezione dei cadaveri. “Hanno due opzioni”, spiega Reifler,” la prima, facendo un esercizio di immaginazione a partire dalle evidenze fisiche, è descrivere chi era quella persona, la seconda è focalizzare su se stessi, raccontando cosa si è provato in quella particolare esperienza. Sollecitando la scrittura descrittiva e riflessiva, secondo Reifler, l’apprendimento di nozioni e capacità manuali si integra con quello di capacità sul piano psicologico-cognitivo. Con beneficio, in definitiva, per tutti: per il futuro medico, che sarà più resiliente agli stress professionali, e anche per i futuri pazienti, che avranno un medico emotivamente più accessibile ed empatico.

Via: Omni News

Marina Bidetti

Giornalista e cofondatrice di Galileo servizi editoriali

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