Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo

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“Non si può fare il medico pensando a quali altri benefici ottenere dalla propria professione. La medicina, la chirurgia in particolare, richiede un impegno e una dedizione al compito totali. Non c’è tempo per fare altro. E con “altro” intendo costruire sistemi di potere, creare e disfare alleanze, ottenere benefici personali o sgravi lavorativi. Ho visto persone abbandonare un paziente ancora in fase di diagnosi soltanto perché era finito il turno. Non si può lavorare con la testa alle proprie esigenze personali, altrimenti la gente muore”.

Certe volte per capire i punti di forza e le criticità di una situazione bisogna esserne completamente estranei. L’ideale, dunque, sarebbe proprio un extraterrestre, per vedere cosa funziona e cosa non va.  Più o meno è questo lo sguardo di Ciro Campanella nel suo saggio autobiografico Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo (Di Renzo Editore). Perché Ciro Campanella – 67 anni, cardiochirurgo di fama mondiale, modi semplici e sorriso franco – italiano di nascita, è andato a fare il suo mestiere in tutte le altre parti del mondo: Sudafrica per cominciare, come allievo di Christiaan Barnard (l’inventore del trapianto di cuore); Gran Bretagna, come il più giovane primario (a soli 36 anni) e primo italiano nominato in Scozia in questa specialità; Stati Uniti, per farsi le ossa in trapianti d’ogni genere e specialità (cuore, polmoni, esofago); e poi Cina, India, Russia, Turchia, Svezia… Insomma, Campanella i continenti li ha girati tutti, diventando uno tra i venti cardiochirurghi più famosi al mondo, ossia uno di quelli che vengono chiamati quando c’è da mettere alla prova una nuova tecnologia o un nuovo intervento, perché offrono garanzia di sopravvivenza al paziente del 99,3%. Questo il tasso di riuscita di quelli veramente bravi, gli altri si “accontentano” della media internazionale del 98%. Extraterrestre sì, ma competente.

A un certo punto della sua carriera, vinto dalla nostalgia di casa, Campanella accetta per concorso un incarico da primario in cardiochirurgia a Roma. Non sospetta nemmeno – perché non è abituato a pensare certe cose – che il concorso in verità è “fallato” da un provvedimento preesistente di chiusura dell’ospedale. Nessuno si prende la briga di avvertirlo, perché intanto qualche politico ha deciso di fare del rilancio di quel nosocomio il suo cavallo di battaglia. E chi meglio di un professionista di fama internazionale per ottenere i titoli dei giornali?

Ciro Campanella si trova così catapultato in un reparto tutt’altro che efficiente e per quattro anni tenta disperatamente di vincere l’inerzia del personale medico, superare le sfiancanti prassi della burocrazia statale e resistere gli assalti del nuovo orientamento politico, che quel reparto, adesso, lo vuole chiuso. Quattro anni, comunque, di grandi risultati, tanto che i suoi numeri (più di 500 interventi all’anno) e la sua fama cominciano a preoccupare le cardiochirurgie concorrenti, che si ritrovano improvvisamente a corto di pazienti. Infine, all’ennesimo attacco – stavolta un’accusa penale, mostruosa e ingiustificata – Campanella si arrende.

“Se guardo indietro alla mia avventura romana – non italiana, dal momento che Roma è una città disfunzionale che rappresenta una realtà a parte – mi rendo conto di aver fatto tanti errori di valutazione. Il maggiore dei quali è stato tornare in Italia”, scrive il cardiochirurgo. Il fatto è che nei quattro anni della sua disavventura romana – “non italiana, dal momento che Roma è una città così disfunzionale che rappresenta una realtà a parte” – il suo sguardo si è incontrato con cose a lui aliene. La prima è la medicina difensiva –  molto meno diffusa in altri Paesi, come, per esempio, Stati Uniti e Gran Bretagna – all’origine del proliferare degli accertamenti, non strettamente necessari ma richiesti dal medico per cautelarsi in caso di azioni legali da parte di un paziente. Il che fa lievitare i costi della cura, ritarda interventi magari necessari e urgenti, dilaziona le responsabilità del medico ma non il reale danno alla salute del malato. Perché? Perché in Italia, osserva l’alieno Campanella, esiste una prassi, sconosciuta nei paesi di ordinamento giuridico anglosassone, che è l’accusa di “omicidio colposo”. Ovvero: se un medico sbaglia diagnosi o intervento e il paziente muore, l’autorità competente per eventuali sanzioni non è un qualche collegio medico o sanitario, chiamato ad esaminare la correttezza dell’intervento, bensì il magistrato. Ma escludendo episodi chiaramente dolosi, osserva Campanella, la medicina non è una scienza esatta, altrimenti non si morirebbe. Ogni specialità chirurgica ha un suo indice di mortalità, ossia una media comunemente accettata di non riuscita dell’intervento, per cause tecniche, fisiche, pregresse, postume… Così, per un intervento di bypass aortocoronarico, si “accetta” che 2,4 pazienti ogni cento non sopravvivano. Se un medico opera entro tali medie, vuol dire che sta facendo il suo dovere e lo sta facendo bene.

Qui entra in gioco una seconda peculiarità della terra italica. In quasi tutti i Paesi del mondo il tasso di mortalità del chirurgo è ad personam: si contano gli interventi fatti dal singolo chirurgo e quelli che hanno portato alla morte del paziente entro 30 giorni dall’intervento. In Italia no. In Italia, la mortalità è per reparto o unità operativa. Il che vuol dire che o nella sala operatoria di un reparto ci entrano soltanto chirurghi “bravi” oppure la credibilità dell’intero reparto è sacrificata, ma attenzione: non quella dei singoli chirurghi. Ciò rende davvero difficile stabilire parametri di qualità e responsabilità univoci.

Terza peculiarità nostrana, conseguente ai primi due: chi decide se un chirurgo è bravo o meno? In Italia è il magistrato. Non una commissione medica qualificata, che valuti carriera, incarichi e competenze del tal chirurgo; non la direzione sanitaria dell’ospedale; non il primario del reparto. Indirettamente, l’unico che veramente decide di una carriera medica è il magistrato: se non lo giudica colpevole di omicidio colposo, allora può continuare a lavorare, diluendo magari la sua mortalità in quella del reparto.

Ma se la morte del paziente è la discriminante di carriera di un chirurgo, vien da sé che gli interventi più difficili non li vorrà fare nessuno. La maggior parte dei chirurghi, osserva Campanella, compie operazioni di routine, senza assumersi rischi, a meno che non si abbia un’assoluta sicurezza nelle proprie capacità. E come si conquista questa sicurezza? Con la competenza, con il tirocino e la pratica, cosa che in Italia, però, nessuno ti fa fare. La chirurgia è una specialità davvero difficile nel nostro Paese, osserva il cardiochirurgo, non tanto perché sia complicato impararla quanto perché – a meno di non rientrare nelle logiche consortili del “padrino-padrone” che ti fa fare carriera – il giovane tirocinante la sala operatoria può non vederla mai. Il che vuol dire che non conquisterà mai quella consapevolezza dei propri mezzi necessaria a sapere cosa può fare e cosa non può fare.

“La sicurezza”, scrive Campanella, “non deriva dal posto, ma da qualcosa che nasce in se stessi: dalla consapevolezza di conoscere il proprio lavoro. Questa consapevolezza del conoscere e conoscersi crea una libertà pratica ed emotiva, che ti permette di muoverti nel mondo – attraverso diversi paesi – semplicemente facendo quello che sai fare. Insomma, tutto il contrario del posto sicuro, che ti rende invece prigioniero e impedisce alle tue aspirazioni di andare altrove”. Sperimentare e innovare fanno parte della pratica medica, del suo migliorarsi, quotidianamente, dinanzi all’ostacolo. Se creiamo generazioni di chirurghi incerti dei propri mezzi o di medici dediti al perseguimento di un posto sicuro e alla salvaguardia di una carriera, anziché alla cura del paziente, stiamo privando la medicina della sua risorsa più preziosa.

Ce n’è di che riflettere, in appena 150 pagine di libro.

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