Quando l’industria incontra la ricerca

Ma insomma: gli science park sono preziosi incubatori dell’innovazione tecnologica a favore soprattutto della piccola e media impresa, oppure “elefanti bianchi” privi di reali legami col territorio? Si è mossa tra questi due estremi la Conferenza mondiale sui parchi scientifici e tecnologici che si è tenuta questa settimana a Trieste con trecento esperti di cinque continenti provenienti dal mondo della ricerca avanzata, dell’industria, delle organizzazioni internazionali e della finanza. World Bank e Unido, Bers e Unesco, Glaxo-Wellcome e Daimler Benz, Cern ed Enea hanno inviato a Trieste i loro rappresentanti, accanto ai responsabili di molti parchi scientifici disseminati in Europa, Asia, America Latina e Australia.

La prima “tappa” italiana decisa dallo Iasp (l’Associazione internazionale dei parchi scientifici) per questo suo quattordicesimo appuntamento annuale su scala mondiale – dopo Pechino e Rio, e prima di Perth, nell’ottobre ‘98 – è stata un significativo omaggio al ruolo rivestito da Area Science Park di Trieste, unico vero parco scientifico italiano, nato quindici anni fa e che oggi raccoglie una quarantina di centri, istituti di ricerca e imprese per un totale di circa 800 addetti in settori che vanno dalla fisica alla biotecnologia, dalla scienza dei materiali all’elettronica, dall’automazione industriale all’informatica, dai sistemi multimediali alle tecnologie biomediche.

“Area Science Park è tra i cinque migliori parchi scientifici d’Europa”, ha detto l’olandese Lex de Lange, presidente della Iasp, che ha tuttavia portato a modello il suo paese, il cui ristretto territorio è in buona parte un autentico parco scientifico. Tra Amsterdam, Rotterdam, Groningen, è tutto un fiorire di università e industrie intimamente collegate. Ma non basta il cocktail professori/dollari per l’innovazione. Bisogna anche favorire nell’università un atteggiamento imprenditoriale, proteggere con brevetti le conoscenze acquisite, finanziare impianti pilota per l’ammodernamento industriale e molte altre cose ancora.

Gian Maria Gros-Pietro, a sole 24 ore dalla nomina alla presidenza dell’Iri (con il compito di chiudere enetro tre anni la saracinesca dell’obsoleto carrozzone di Stato), non ha voluto mancare all’appuntamento. E ne ha approfittato per un’autentica lezione ex cathedra nella duplice veste di presidente dell’Agitec (Agenzia nazionale per l’innovazione) e di professore di Economia industriale a Torino.

Innovazione tecnologica equivale a sviluppo?, si è chiesto Gros-Pietro. Non necessariamente. Nell’economia classica – da Smith a Ricardo – veniva messo soprattutto l’accento sulla forza lavoro e sul capitale. E se Marx dimostrava maggiore considerazione per la tecnologia, l’innovazione era ai suoi occhi solo un mezzo di cui il capitalista si serviva per trattenere il surplus nelle proprie tasche. La prospettiva cambia alla metà del nostro secolo. Schumpeter pone l’innovazione al centro del pensiero economico, innescando un circolo virtuoso in cui essa diventa motore della crescita.

E’ in questa cornice che fioriscono i parchi scientifici negli Stati Uniti, in Europa, nell’Estremo Oriente. “Il loro compito – ha detto il neopresidente dell’Iri – è quello di immettere nei sistemi produttivi le conoscenze scientifiche e tecnologiche”. Ma perché in Italia l’operazione è sostanzialmente fallita, a parte il caso di Trieste? “Perché da noi è difficile che gli studiosi si facciano imprenditori, la cultura accademica è troppo lontana da quella industriale”.

Dopo l’euforia degli anni Ottanta, la filosofia dei parchi scientifici necessita oggi di aggiustamenti abbastanza profondi. Non preoccupa tanto il fatto che – mediamente – ogni cinque science park realizzati, uno fallisca i suoi obiettivi: si tratta di una percentuale di insuccesso fisiologica, simile a quella delle nuove imprese. Preoccupa invece che l’eccesso di ottimismo crei “cattedrali nel deserto” nei paesi in via di sviluppo e nelle economie in transizione dell’Europa centro-orientale. Due temi che a Trieste sono stati al centro dell’attenzione, con una serie di casi da leggere in controluce.

La Russia, ad esempio, si propone oggi come una delle regioni più interessanti per lo sviluppo dei parchi scientifici. La rapida transizione dell’economia verso il libero mercato ha troncato quelle che erano le tradizionali relazioni tra il mondo della ricerca universitaria e l’industria di Stato. Il drammatico “taglio” dei finanziamenti statali ha così spinto molti istituti di ricerca a offrire sul mercato i propri prodotti tecnologici. E’ da qui che è scaturito il fenomeno dei parchi tecnologici. Un trend che tuttavia presenta almeno tre punti deboli: la mancanza di capacità manageriali, l’assenza di un’infrastruttura che eroghi i finanziamenti necessari a immettere sul mercato i prodotti basati sulle nuove tecnologie, l’illusione (pericolosa) da parte di molti operatori russi, i quali credono che la loro tecnologia verrebbe meglio sfruttata in Occidente.

Più convincente l’avvio del parco tecnologico di Lubiana, nella vicina Slovenia, nato meno di due anni fa e che oggi conta una quindicina di imprese e 112 addetti. E addirittura entusiasmante l’esperienza della Cina, che dal 1985 ha realizzato decine di “Parchi nazionali della scienza e dell’industria” per sostenere l’inserimento delle nuove tecnologie.

E nei paesi in via di sviluppo? A Trieste si sono raccontate esperienze positive e innovative, come quella di Curitiba, capitale del Paranà, nel Sud del Brasile, dove la creazione di Technopark ha trasformato completamente una parte della città. Ma è proprio nel Terzo Mondo che resta più elevato il rischio degli “elefanti bianchi”. Senza centri accademici di alto livello, senza adeguati meccanismi di trasferimento tecnologico, senza personale qualificato, un parco scientifico rimarrà un velleitario contenitore del nulla.

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