Quanta Terra può dirsi oggi incontaminata?

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(Foto: AJ Robbie on Unsplash)

Quanto siamo stati invasivi finora? Fin dove ci siamo spinti? O, di contro, quanto dell’ambiente là fuori possiamo dire di aver lasciato selvaggio, incontaminato, intatto per così dire, più o meno indirettamente? Poco, pochissimo, avverte oggi un team di ricercatori sulle pagine di Frontiers in Forest and Global Change. Appena uno scarso 3% delle superfici della Terra può considerarsi intatto, e solo un decimo circa di questo è incluso in aree protette. Così scrive il team guidato da Andrew Plumptre del Key Biodiversity Areas Secretariat e dell’Università di Cambridge (Regno Unito).

Le stime dell’impatto antropologico su un determinato ambiente, rivolte soprattutto a quantificare quanto la presenza e le attività umane hanno cambiato gli habitat, hanno dei limiti nel fotografare il grado di contaminazione di un’area. Per esempio, mentre è abbastanza semplice stimare l’impatto umano derivante dalla presenza di infrastrutture o allevamenti, meno è capire quello che possono avere attività come la caccia, che modificano senza dubbio un habitat, spiegano gli autori. E i dati che arrivano dalla letteratura, che parlando di una fascia compresa tra il 20 e il 40% di aree con una limitata influenza umana, non fotografano appieno la situazione.

Così, più che guardare fin dove si è spinto l’uomo con le sue costruzioni, attività e relative ripercussioni sull’ambiente, gli scienziati hanno deciso di considerare l’integrità di un’area ricorrendo a uno dei criteri utilizzati per identificare una cosiddetta Key Biodiversity Areas (KBA), ovvero un’area importante per la conservazione della biodiversità. Il criterio utilizzato in particolare fa riferimento al concetto di un sito integro inteso come quello –con un’estensione pari ad almeno 10 mila km2– nel quale possono considerarsi intatte la composizione, l’abbondanza e le interazioni delle specie native. Cercando di spiegare meglio il concetto di intatto, gli autori citano gli standard usati per le KBA, spiegando che una comunità ecologica è intatta quanto contiene le specie attese per quell’ecosistema, rispetto a un riferimento storico. Nello studio il riferimento è il 1500, lo stesso considerato dalla Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Nel considerare l’integrità di un determinato ambiente i ricercatori spiegano però come abbiano considerato diversi aspetti: l’assenza di modifiche antropologiche, così com il mantenimento del numero e dell’abbondanza delle specie.

Così, mettendo insieme i dati di impatto umano, quelli sulla riduzione delle specie (come estirpate e ridotte in densità), e focalizzandosi soprattutto sui mammiferi, i ricercatori hanno stimato le aree intatte. Il risultato: solo il 2,9% della superficie terrestre può dirsi intatto dal punto di vista faunistico, e poco meno, il 2,8% può considerarsi funzionalmente intatto. Ma, e concludono gli autori, la reintroduzione guidata e controllata di alcune specie (fino a 5) potrebbe aumentare la percentuale di aree faunisticamente integre fino al 20%. Qualche esempio? La re-introduzione degli elefanti nel Bacino del Congo, o di alcuni ungulati in alcune regioni africane, dove sono stati decimati dalla caccia.

Riferimenti: Frontiers in Forest and Global Change

Credits immagine: AJ Robbie on Unsplash