Quante bombe a grappolo ci sono a Pisa?

Spesso, quando si parla di armi e disarmo, il pensiero corre ai sistemi più moderni e sofisticati dai satelliti ai robot, per non dire – ovviamente – delle armi nucleari. Eppure la maggior parte delle sofferenze imposte all’umanità dai conflitti vengono prodotte da strumenti molto più semplici ma, non per questo, meno atroci: le armi convenzionali, magari nella loro versione più aggiornata, come mine anti-persona, armi incendiarie o bombe a grappolo per parlare delle più malfamate. Ogni tanto esse assurgono agli onori della cronaca quando vengono avanzate accuse di un loro uso improprio, come nel caso del fosforo bianco in Iraq a Fallujah nel novembre 2004, o delle cluster munitions in Libano nel luglio 2006 e più recentemente in Libia nell’aprile 2011. Ma il più delle volte esse restano lontane dall’attenzione pubblica.

Consideriamo per esempio il caso delle bombe a grappolo (cluster munitions, o anche cluster bombs): si tratta di ordigni esplosivi che spargono altri ordigni più piccoli (bomblets o sub-munitions) progettati in genere per colpire persone o veicoli nemici. Altre armi della stessa classe sono invece predisposte per rendere inutilizzabili piste d’atterraggio, linee elettriche, o anche per disperdere armi chimiche o biologiche. I danni provocati alle popolazioni civili durante, e soprattutto dopo un attacco sono enormi a causa della disseminazione di ordigni inesplosi su vaste aree. Già durante l’attacco queste armi producono effetti indiscriminati se usate in aree popolate; ma l’aspetto certamente più grave è che le bomblet inesplose, al pari delle mine anti-persona, continuano poi a uccidere e mutilare civili per lungo tempo dopo che il conflitto è terminato, mentre, come è noto, la loro bonifica si presenta difficile e molto costosa.

Dagli anni Settanta agli anni Novanta le cluster bomb sono state comunemente usate in una grande varietà di tipi e in molti paesi. Gli Stati che nella storia recente hanno prodotto bombe a grappolo sono almeno 28 tra cui anche l’Italia, mentre quelli che le hanno usate in conflitti scoppiati dopo la creazione dell’ONU sono almeno 14 e tra di essi ritroviamo Francia, Israele, Russia, UK e USA. Molto più numerosi (almeno 76 fino al 2008) sono poi i paesi che sono accreditati di detenerne scorte in deposito, e fra questi compare ancora una volta l’Italia. La varietà dei tipi di questi ordigni rende però il loro controllo piuttosto difficile. Per esempio alcune bombe destinate a uso anti-tank si autodistruggono quando arrivano al suolo senza aver localizzato un bersaglio riducendo in questo modo – almeno nelle intenzioni – i rischi di danni involontari alle popolazioni civili. Sulla base della pretesa che questo tipo di armi non provochi effetti indiscriminati o non lasci munizioni inesplose, esse non sono paradossalmente classificate come cluster bomb secondo la definizione accettata nei trattati internazionali di cui parleremo in seguito, e quindi sfuggono al loro controllo.

Alcuni altri modelli di sub-munizioni sono stati progettati in passato anche come mine terrestri. La Convenzione APM (Anti-Personnel Mines) di Ottawa sulle mine, firmata nel 1997 ed entrata in vigore il 1° marzo 1999, vieta l’impiego, l’uso, la progettazione, il commercio e lo sviluppo degli ordigni antipersona, ma diversi paesi come USA, Cina, Russia, non hanno sottoscritto tali accordi e continuano a impiegarli e produrli in tutte le loro forme. L’Italia invece ha firmato e ratificato (il 23 aprile 1999) la convenzione sulle mine.

Le sub-munition e le bombe a grappolo sono state oggetto di diverse proposte di moratorie e trattati internazionali da parte di molti paesi e associazioni internazionali quali la Croce Rossa Internazionale, Handicap International e la stessa ONU. La discussione si inquadra in quello che internazionalmente è chiamato controllo di armi inumane: armi incendiarie, mine anti-uomo, trappole, armi accecanti e così via. Dalla metà degli anni Novanta le armi inumane hanno catturato l’attenzione internazionale mentre la loro utilità militare è stata sempre più messa in questione, e il danno umanitario ed economico da loro prodotto è stato largamente denunciato.

Oggigiorno sono in vigore alcuni accordi internazionali che non solo regolano o bandiscono l’uso di mine anti persona, residui bellici esplosivi (ERW, Explosive Remnants of War) e cluster munition, ma cercano anche di limitare gli effetti dei conflitti armati sui civili. La Convenzione su Certain Conventional Weapons (CCW firmata il 10 aprile 1981, ed entrata in vigore il 2 dicembre 1983) restringe o vieta l’uso di alcune categorie di armi considerate causa di sofferenze non necessarie o ingiustificabili per i combattenti, o di colpire i civili in maniera indiscriminata. Più di 100 Stati vi aderiscono (tra essi USA, Russia e Cina) e anche l’Italia ha ratificato la sua adesione nel 1995. La CCW consiste in un insieme di protocolli addizionali dedicati a vari tipi di armi, proibendone o restringendone l’uso. Uno di questi protocolli – il III, quello sulle armi incendiarie – è stato chiamato in causa nel 2005 in connessione con l’uso di fosforo bianco a Fallujah, in Iraq. Il II protocollo invece proibisce l’uso di particolari tipi di mine anti-uomo, ma non le mette fuori legge. Abbiamo dovuto quindi attendere la già citata Convenzione APM di Ottawa del 1997 per avere un trattato che, al di fuori dello schema del CCW, metta al bando non solo l’uso, ma anche la produzione e la detenzione di tutte le mine anti-persona. L’Italia ha ratificato la Convenzione di Ottawa nell’aprile del 1999, ma è sintomatico dell’indigeribilità di questo trattato il fatto che paesi importanti come USA, Russia e Cina non lo abbiano ancora firmato e quindi non ne siano formalmente vincolati.

Fino a poco tempo fa il V protocollo della CCW era l’unica regolamentazione internazionale sulle ERW, cioè sui residuati bellici che comprendono le sub-munizioni inesplose di cluster bomb. Tale protocollo però richiede solo che alla fine delle ostilità i paesi che vi hanno preso parte eliminino gli ERW e diano comunque informazioni sulla loro collocazione. Prendendo allora a modello il processo politico che ha condotto negli anni Novanta alla Convenzione di Ottawa sulle mine, il processo di Oslo ha stigmatizzato le cluster munition e ha condotto alla fine alla Convenzione sulle Cluster Munition (CCM) che le bandisce. Il trattato è stato adottato dai delegati di 107 nazioni il 30 maggio 2008 a Dublino, è stato aperto alla firma il 3 dicembre 2008 a Oslo ed è infine entrato in vigore il 1° agosto 2010. Allo stato attuale la CCM è stata ratificata da 56 Stati: l’Italia figura come firmataria, ma – alla data in cui sono state scritte queste righe – manca ancora la sua ratifica definitiva. Non aderiscono invece Stati Uniti, Cina, India, Pakistan, Israele, Russia, Brasile, Iran, Libia, Arabia Saudita, e varie altre nazioni di minori dimensioni.

La CCM proibisce l’uso, la produzione, il trasferimento e la detenzione di cluster bomb, e consente solo certi tipi di bombe a grappolo con precise limitazioni tecniche sulle sub-munizioni permesse. Gli USA dal canto loro non hanno aderito alla CCM sostenendo che il quadro più adatto per discutere delle bombe a grappolo resta la CCW. Conseguentemente anche altri utilizzatori, produttori e possessori di depositi di cluster munition, invece di aderire al processo di Oslo, hanno continuato la trattativa all’interno dello schema della CCW. In effetti il problema delle cluster munition ha fatto parte dell’agenda della CCW a partire dalla sua conferenza di revisione del 2006. Nell’agosto 2009, dopo consultazioni informali all’interno del Gruppo di Esperti Governativi (GGE), il suo presidente Gustavo Ainchil ha anche presentato una bozza di protocollo sulle cluster munition che potrebbe diventare un sesto protocollo della Convenzione CCW. Sta di fatto però che lo stato complessivo della legislazione internazionale su questo tipo di armi è ancora piuttosto confuso.

Nel febbraio di quest’anno 2011 alcune rivelazioni di WikiLeaks pubblicate da la Repubblica e da l’Espresso hanno portato alla luce alcuni scambi diplomatici in base ai quali a Camp Darby, un grande deposito di munizioni dell’esercito USA vicino Pisa, sarebbero custodite anche delle cluster bomb. La notizia ha creato comprensibile imbarazzo visto che l’Italia, pur non avendo ancora ratificato la convenzione, è pur sempre uno degli Stati firmatari della CCM. Naturalmente lo stato ambiguo della regolamentazione internazionale e il fatto che gli USA – nostro alleato e sospetto possessore delle cluster bomb di Camp Darby – non abbiano neanche firmato la CCM, ha contribuito a definire un clima nebbioso nel quale la notizia sembra essere progressivamente scomparsa dalle pagine dei giornali senza che sia stata fornita ufficialmente nessuna conferma o smentita.

Sarebbe quindi molto utile far luce su un paio di aspetti di questa vicenda: innanzitutto sarebbe interessante sapere se l’Italia, che in passato ha prodotto cluster munition, ne detenga ancora nei suoi depositi. La notizia appare infatti sul sito della Cluster Munition Coalition all’indirizzo www.stopclustermunitions.org/the-problem/countries ed è basata su dati di Human Rights Watch. Pur non costituendo ciò, in assenza di una ratifica, una violazione palese della CCM, questa eventualità sarebbe comunque inquietante, almeno quanto quella della possibile presenza di bombe a grappolo americane a Camp Darby. D’altra parte la ratifica sembra ormai imminente e la sua definitiva approvazione apparirebbe in netto contrasto con le notizie di persistente presenza (italiana o americana) di cluster munition sul nostro territorio.

E qui arriviamo al nostro secondo interrogativo: a che punto è la procedura di ratifica? Per quanto ciò possa apparire strano, è infatti passata quasi del tutto inosservata la notizia della ratifica all’unanimità della CCM da parte del Senato della Repubblica proprio lo scorso 16 marzo 2011. Il trattato dovrebbe quindi essere sottoposto all’attenzione della Camera dei Deputati e, se definitivamente ratificato, si porrebbe in netto contrasto – ora sì – con le notizie di depositi di armi a grappolo, italiane o americane che esse siano.

Credit immagine: www.mineaction.org

L’articolo è apparso con il titolo “Fermate le bomblets” su Sapere, agosto 2011

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