Categorie: SaluteSocietà

Quanto sono utili le “Giornate mondiali”?

Quella contro il cancro? 4 febbraio. Contro l’Aids? Primo dicembre. Autismo? 2 aprile. Malaria e tubercolosi? Rispettivamente 25 aprile e 24 marzo. In effetti, sono moltissime le giornatesettimane mesi che ogni anno vengono dedicati alla lotta contro qualche patologia (se vi fosse sfuggito ad esempio, al momento siamo nella settimana mondiale contro le allergie), per sensibilizzare l’opinione pubblica e raccogliere fondi per la ricerca. Occasioni importanti, la cui efficacia però sembra di rado valutata con rigore dalla comunità scientifica. A dirlo sono Jonathan Purtle, della Drexel University School of Public Health, e Leah Roman, esperta di salute pubblica, in un commento apparso sull’American Journal of Public Health.

La loro riflessione nasce da due considerazioni. Da un lato infatti giornate, settimane e mesi dedicati a problemi di salute sono ormai onnipresenti, visto che il numero di quelle riconosciute dal ministero della salute americano nel 2014 ha superato quota 200. Dall’altro, le linee guida nel campo della sanità pubblica raccomandano di finanziare e implementare solamente interventi che siano basati su forti dati scientifici (o evidence based). Ma nel caso delle giornate mondiali, si sono chiesti i due esperti, quanti dati scientifici esistono sulla loro efficacia?

Per scoprirlo hanno deciso di studiare la letteratura scientifica esistente, ricercando “awarness day” (qualcosa di simile a “giornata per la lotta alla…”) nel database di Pubmed, dove sono catalogati la maggior parte degli articoli scientifici pubblicati ogni anno. I due ricercatori hanno quindi analizzato i 74 risultati così ottenuti, scoprendo che in nessun caso si trattava di studi che avevano valutato l’efficacia sanitaria delle “giornate della…”.

Si tratta dunque di iniziative inutili? Assolutamente no, almeno secondo i due ricercatori. La loro opinione è che si tratti di iniziative la cui efficacia risulta difficile da valutare, perché lanciano messaggi rivolti a modificare la consapevolezza e i comportamenti principalmente al livello degli individui. “La consapevolezza non è una brutta cosa – spiega Purtle – ma non è sufficiente per migliorare la salute di una popolazione”.

Secondo i due esperti, la parola chiave qui è proprio quest’ultima: popolazione. Messaggi rivolti a modificare i comportamenti individuali, come mangiare più sanofare eserciziosottoporsi agli screening, sarebbero infatti solamente una tessera del puzzle della salute pubblica. Per avere risultati più incisivi, e anche più facilmente misurabili, sarebbe importante affrontare invece anche fattori sociali o ambientali, il cui impatto è indipendente dalle scelte personali e spesso altrettanto rilevante per la salute.

“Secondo me le giornate dedicate alla consapevolezza possono avere potenzialmente un impatto estremamente positivo – continua Purtle – ma devono attirare l’attenzione su specifici problemi regolatori e spingere verso una modifica di determinate norme che impattano la salute pubblica, e non solo di comportamenti individuali”.

Secondo i due autori bisognerebbe inoltre iniziare a valutare i risultati delle iniziative di sensibilizzazione verso temi di salute, così da poterne migliorare col tempo l’efficacia comunicativa basandosi su dati certi. L’organizzazione di queste iniziative può d’altronde rivelarsi estremamente impegnativa, spiegano Roman e Purtle, e per questo “Vogliamo assicurarci che la passione, il tempo e la fatica che vengono impegnati in questo tipo di eventi siano dirette ad un intervento sanitario che porti realmente un cambiamento significativo per la salute pubblica”.

Via: Wired.it

Credits immagine: Sarah G/Flickr CC

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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