Appena videro affiorare i resti dell’imponente edificio romano a pianta rettangolare, rinvenuti tra Ostia e Fiumicino, pensarono si trattasse di un magazzino per lo stoccaggio delle merci, dall’architettura molto simile a quella dei Mercati Traianei. Procedendo negli scavi, però, gli archeologi dell’Università di Southampton dovettero ricredersi: quei pilastri larghi tre metri piantati nel II secolo d.C a metà strada tra i porti di Traiano e di Claudio, sul litorale romano, erano probabilmente la struttura portante di un gigantesco cantiere navale. Forse il più grande di tutta la Roma Imperiale, niente a che vedere con gli altri due finora noti, quello fluviale di Testaccio e l’altro marittimo di Ostia.
Bisogna immaginarselo come un casermone in pietra, con otto vani paralleli, dai soffitti a volta ricoperti in legno (oggi li chiameremmo box), che ospitavano le navi per la costruzione, riparazione e rimessa invernale.
Con i suoi 145 metri di lunghezza, 60 di profondità e 15 di altezza, quello che è stato chiamato l’“arsenale di Traiano” – di cui per ora è stata portata alla luce solo la prima delle otto navate – ha tutti i requisiti per venire considerato il principale cantiere navale dell’Urbe, l’unico in grado di soddisfare le sue ambizioni egemoniche sul mare. A questo scopo venne costruito durante il regno di Traiano (98-117 d.C) e solamente dopo, nel V secolo, trasformato in magazzino per la conservazione del grano.
A convincere i ricercatori di Southampton, che hanno condotto gli scavi in collaborazione con la British School at Rome e la Soprintendenza archeologica di Roma, hanno contribuito una serie di eloquenti indizi. Innanzitutto la posizione: gli otto “box” avevano un doppio affaccio, da una parte sull’antico porto di Claudio e dall’altra sul bacino esagonale di Traiano. Poi ci sono le incisioni rinvenute che parlano di un “collegium” dei “fabri navales portuensis”, una sorta di associazione di lavoratori del cantiere. La ricostruzione al computer che i ricercatori hanno realizzato con i dati a disposizione ricorda molto, infine, il soggetto rappresentato nel mosaico della Villa di Livia sulla via Labicana, con una nave in ognuna delle otto gigantesche nicchie. La nuova scoperta spiegherebbe anche la natura di un palazzo rinvenuto dalla stessa squadra di archeologi nel 2009, poco lontano dall’officina navale: si tratterebbe della sede di un comando operativo, guidato da un ufficiale dell’Impero con il compito di controllare e coordinare le attività del cantiere.
Manca però la “prova del nove”: “Dobbiamo ammettere che non c’è traccia delle rampe su cui le navi appena costruite avrebbero dovuto scivolare per entrare in acqua. Ma potrebbero essere finite nel fondo del mare in seguito ai lavori di costruzione degli argini del 1900. Trovandole, potremmo confermare la nostra ipotesi, anche se potrebbero non esistere più” spiega Simon Keay che guida la campagna archeologica (Portus Project). Si scaverà ancora, a partire dal prossimo mese, in cerca di ulteriori conferme.
Riferimenti: Portus Project; Università di Southampton