Reduci dei Balcani, l’uranio in corpo

A un mese dalla morte di Valery Melis, il militare italiano impegnato in quattro missioni di pace nei Balcani e colpito dal linfoma di Hodgkin, arriva la notizia di un altro decesso legato alla possibile contaminazione da uranio impoverito, quello di un marinaio che prestava servizio nel Poligono del Salto di Quirra in Sardegna.

Il decesso del giovane è avvenuto lo scorso 26 luglio 2003 ma la notizia è trapelata solo dopo sette mesi. La cosiddetta Sindrome dei Balcani avrebbe così finora fatto 26 vittime mentre quasi 300 sono i malati. A rendere l’argomento attuale e rilanciare l’allarme arriva poi la denuncia di Pekka Haavisto, presidente del comitato di valutazione post bellica dell’Unep, l’agenzia per la protezione dell’ambiente dell’Onu: fonti militari britanniche hanno ammesso che durante i bombardamenti dell’ultima guerra del Golfo su Bassora sono state sganciate 1,9 tonnellate di uranio impoverito.

Sugli effetti per la salute umana di questo metallo si è concentrato uno studio condotto all’Università di Lovanio in Belgio che ha dimostrato la velocità con cui le nanoparticelle si propagano nell’organismo: dal momento dell’inalazione bastano 60 secondi perché arrivino dai polmoni al circolo sanguigno e 60 minuti perché raggiungano il fegato. E lì rimangano praticamente per sempre.

“Si tratta di elementi che non possono in alcun modo essere eliminati dall’organismo”, spiega Antonietta Morena Gatti, direttore del Laboratorio di Biomateriali presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, coordinatrice del comitato di ricerca della Commissione Europea che dal 2002 si occupa di nanopatologie. E che dimostrano un’analoga capacità di persistenza anche nei terreni e nei fabbricati.

La terza e ultima relazione della commissione Mandelli, incaricata dal governo di far luce sulla questione, che risale ormai al giugno 2002, ha confermato che esiste un “eccesso statisticamente significativo” di casi di linfoma di Hodgkin tra i militari impegnati nei Balcani. In pratica tra i militari la percentuale di quanti si ammalano di questa patologia è superiore a quella che si riscontra nella popolazione civile. “Ma la commissione non ha considerato il personale deceduto o ammalatosi nei poligoni e nemmeno le malformazioni alla nascita dei figli di militari e civili che hanno operato nei poligoni, così come in altri teatri di operazione”, ha denunciato Falco Accame, presidente dell’Anavafaf, una associazione che tutela i familiari delle vittime arruolate nelle Forze armate. Per non dire dei volontari delle Organizzazioni non governative presenti in gran numero in tutte le zone di guerra. E soprattutto nessuno è riuscito mai a valutare il peso della cosiddetta esposizione interna, quella cioè causata dalla presenza all’interno dell’organismo di particelle microscopiche di metalli tossici.

Eppure sono stati diversi gli studi europei che negli ultimi anni hanno puntato l’indice proprio contro le nanoparticelle di uranio ritrovate nei tessuti malati di civili e militari, particelle che si sono dimostrate compatibili con quelle recuperate dai terreni di guerra dove le patologie furono contratte. “Gli studi hanno dimostrato che queste polveri si raccolgono in determinati parti del corpo, in particolare il fegato e i polmoni; li abbiamo trovati in più di 200 pazienti, di cui oltre 100 ammalati di cancro”, racconta la ricercatrice. Si rafforza quindi l’idea che le sindromi post belliche non siano causate dagli effetti delle radiazioni esterne, quella emessa dall’uranio impoverito nell’ambiente. Esse, infatti, sono considerate “low level”, perché costituite principalmente da particelle di tipo alfa: basta un contenitore di plastica per schermarle. La radioattività può causare problemi clinici nel lungo periodo, per esempio in seguito a un contatto prolungato (come quello dovuto all’abitudine dei soldati di tenere al collo reliquie di guerra trovate nei campi). Altrimenti, la tossicità dell’uranio inalato o presente in frammenti di proiettile immessi nell’organismo è di gran lunga più grave e pericolosa.

”Di fatto, non abbiamo mai trovato uranio nei tessuti dei militari analizzati. Abbiamo, invece trovato particelle molto piccole di metalli”, continua Gatti. Che gli stessi proiettili a base di uranio impoverito generano attraverso esplosioni ad altissime temperature – circa 3000 gradi – che provocano la fusione di tutti i metalli che compongono il proiettile, con la conseguente formazione a volte di nuove leghe metalliche. “Vengono insomma creati aerosol di tutto quello che si trova nell’ambiente dove avviene l’esplosione”, spiega la ricercatrice. Esaminando sangue e sperma di alcuni soldati malati o deceduti si è riscontrata infatti la presenza di particelle pesanti (zinco, rame, zinconio, ferro) che si ottengono soltanto ad altissime temperature raggiungibili in presenza di uranio impoverito. Se si considera che l’uranio impoverito viene utilizzato in campo militare proprio per la sua capacità di distruzione di materiali che resistono ad altri metalli, il puzzle è ricomposto. L’uranio pesa il doppio di acciaio e piombo e se finemente suddiviso si infiamma spontaneamente: è, come si dice, piroforico. Le sue caratteristiche fisiche sono quindi ideali per aumentare la penetrazione dei proiettili, in modo da sfondare meglio corazze di acciaio e edifici blindati. Il problema però non riguarda solo chi assiste alle esplosioni. Civili e altri militari che operano in queste aree subito dopo la guerra, durante il periodo di ricostruzione, sono a rischio alla stesso modo. “Altri studi dimostrano che queste microparticelle tendono ad aggregarsi e a rimanere nell’aria per molto tempo”, afferma Gatti.

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