Rencon, al pianoforte siede un computer

    Ieri si chiamavano Arturo Benedetti-Michelangeli o Sergej Vasil’evič Rachmaninov. I grandi pianisti di domani, invece, potrebbero avere nomi come VirtualPhilarmony e StochasticModel, i due vincitori del concorso pianistico internazionale Rencon 2013. Si tratta di un contest musicale unico nel suo genere, dedicato esclusivamente ai sistemi informatici. Una sorta di “test di Turing per la musica”, come lo ha definito Wired UK, durante il quale la giuria è chiamata a giudicare 12 performance pianistiche in base a tecnica, musicalità e variazioni espressive. Ma soprattutto, vista la natura degli esecutori, umanità

    Il Rencon (Musical Performance RENdering CONtest) è arrivato quest’anno all’undicesima edizione. Nacque in Giappone nel luglio 2002, durante una conferenza a Kyoto, come sfida semiseria tra tre gruppi di ricerca. La competizione è cresciuta negli anni, diventando un concorso internazionale e coinvolgendo sempre più squadre da tutto il mondo. Ogni équipe ha la sua particolare strategia nello sviluppo del software: la base da cui partono tutti è la comprensione della partitura originale – la cosiddetta grammatica – e la sua reinterpretazione per produrre una variazione espressiva del brano. “Durante un discorso, si può usare la stessa parola per comunicare diverse espressioni. Dipende da quanto la si enfatizza e da come la si pronuncia. Lo stesso si può dire per la musica”, spiega Roberto Bresin, del Sound and Music Computing Group di Padova, uno degli organizzatori della competizione. “È anche possibile modificare lo stile della performance, attenendosi alla grammatica ma enfatizzando o smorzando alcuni toni acustici”.

    In generale, perché una macchina esegua un pezzo al pianoforte in modo il più possibile umano, sono possibili due approcci. Il primo è quello grammaticale, in cui si insegna a un computer come leggere la melodia e le notazioni e quindi si applicano determinate regole per influenzare tempo e dinamica del pezzo, al fine di imitare gli spunti creativi delle performance umane. Il secondo, invece, prevede l’apprendimento automatico della macchina, cioè un’analisi statistica di ore e ore di brani suonati da umani che poi vengono presi a modello dal sistema. Esistono, naturalmente, anche software ibridi.

    Il Rencon è organizzato in due categorie: sistemi completamente automatici, in cui il computer riceve in input una partitura, la rielabora e infine la suona, e sistemi controllati da umano, dove la macchina deve seguire il ritmo imposto da un pianista. Ciascuna squadra – o meglio, ciascun computer – ha un’ora per prepararsi ad andare in scena. Nella competizione di quest’anno sono stati assegnati la Sonata K.466 di Domenico Scarlatti e il Preludio 3 di Nino Rota. Dopo aver ricevuto il file midi con i brani suonati in modo neutrale, le équipe regolano i parametri dei sistemi in base al tipo di musica (barocca, romantica, classica o moderna, per esempio) e lanciano i software. Il file in output viene quindi trasmesso al Disklavier, un pianoforte a coda controllato elettromeccanicamente, ed eseguito davanti alla giuria.

    Il sistema vincitore nella categoria che prevede la conduzione umana è stato VirtualPhilarmony, sviluppato da Takashi Baba della Kwansei Gakuin University, che usa un theremin come sensore per catturare i movimenti dell’esecutore e rielabora i dati agendo su tempo e dinamica (qui l’esecuzione). L’équipe che ha vinto la categoria solo computer viene invece dal Nagoya Institute of Technology: il loro sistema modellizza e reinterpreta la partitura secondo un set di regole predefinito, dividendo l’intero spartito in frasi e agendo separatamente su ciascuna di esse. 

    Baba ha spiegato a Wired UK che le difficoltà principali legate allo sviluppo di un software di questo tipo stanno in quello che non è scritto nella partitura: “Supponiamo che nello spartito sia segnata una f, il simbolo che indica di aumentare il volume di una nota. Il computer è in grado, naturalmente, di interpretare il simbolo. Ma non può capire se la f è stata segnata per esprimere rabbia, o gioia, o trionfo [un’obiezione che ricorda la stanza cinese di John Searle, nda]. C’è una specie di scatola nera che si interpone tra l’approccio di un computer e quello di un umano. È dove si trovano arte, sensibilità, creatività e umanità“. È in questa scatola nera che i ricercatori devono riuscire a entrare, se vogliono che le prestazioni del computer siano davvero umane. Un’impresa non da poco.

    Via: Wired.it

    Credits immagine: fiddle oak/Flickr

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