Ricercatori allo sbaraglio

Michele Zoli è medico endocrinologo dell’Università di Modena. Nell’89 è stato assunto come tecnico laureato, nonostante fosse già medico specialista, dopo sei anni di precariato. Perché? “Perché non c’erano concorsi per ricercatori”, dice Zoli. Per il laureato che decide di intraprendere in Italia la “carriera” del ricercatore. il concorso è più un ostacolo che un’occasione, più un “posto di blocco” che una porta d’ingresso nel mondo della scienza. La cronaca italiana ci ha abituato a non pochi episodi di denuncia di concorsi “truccati”, ma c’è il sospetto che questi non siano che la punta di un iceberg. Insomma, la realtà è che ci sono pochi concorsi, e non sempre è il merito a essere premiato, come mette in evidenza un’inchiesta pubblicata nelle scorse settimane su Liberal. “Avere la possibilità di farcela non dipende dalle tue capacità. Quello che conta è più spesso il caso e il potere del tuo capo”, rincara la dose Zoli. E non è una voce nel deserto.

Un’indagine dell’Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IsrdsCnr), pubblicata dalla FrancoAngeli nel volume “Il brutto anatroccolo”, mette in evidenza il disincanto dei dottorati di ricerca. Questi ritengono che le assunzioni siano determinate soprattutto dalla segnalazione interna al mondo accademico, e dalla consuetudine ed esperienza fatta presso il dipartimento o istituto, piuttosto che dal merito (al terzo posto nella classifica). Ora, il ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica Luigi Berlinguer promette ai tanti studiosi sfiduciati una riforma che dovrebbe cambiare volto alla ricerca nel nostro paese e, di conseguenza, all’accesso nel mondo scientifico.

Già nell’ottobre del ‘97, il primo decreto Bassanini (Dpr 386) aveva notevolmente semplificato le procedure burocratiche per il reclutamento dei ricercatori. E nel prossimo futuro, con l’approvazione del disegno di legge sulle “norme per il reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari di ruolo”, la competenza per la “copertura dei posti vacanti” dovrebbe essere trasferita alle università, sia che si tratti della nomina di ricercatori, sia di quella di professori ordinari o associati, con la convinzione che l’autonomia stimolerà le università a una maggiore responsabilità e a una leale concorrenza scientifica.

Stando alle promesse del nuovo corso, inoltre, si ridurrà nel tempo il numero dei ricercatori con il posto fisso a vita, una realtà statica – in un mondo dinamico come quello della ricerca – che è tutta italiana. Così, i giovani ricercatori saranno favoriti con contratti a termine e con l’istituzione di “assegni di ricerca”. Questo significa che si resterà ricercatori soltanto per un determinato periodo di tempo. Poi si passerà al ruolo di docente universitario. O si andrà a lavorare negli enti o nelle imprese.

Oggi in Italia, secondo stime Ocse del ‘94, i ricercatori impegnati nei settori di Ricerca & Sviluppo sono 75.722, contro i 146.000 del Regno Unito, i 149.193 della Francia, i 229.839 della Germania, i 962.700 degli Stati Uniti. Se si guardano in particolare gli enti di ricerca pubblici del nostro paese, si scopre che il personale è costituito da 7.684 ricercatori, di cui 3.337 al Cnr, 1.639 all’Enea, 468 all’Infn, 214 presso Osservatori astronomici, 462 in istituzioni sanitarie, 180 all’Istat, 411 in stazioni sperimentali dell’industria e istituti sperimentali agrari, 581 in altri enti. E se i ricercatori che lavorano nelle imprese sono 28.228, nelle Università si contano 58 mila tra docenti e ricercatori.

Pochi, rispetto agli altri paesi più industrializzati. Ma a questi va aggiunta una schiera di superlaureati qualificati che non trovano spazio né diritti: borsisti, dottorandi e volontari che lavorano in cambio di borse da 1 milione al mese o anche meno, se non addirittura gratis. “E’ difficile per i giovani lavorare bene in Italia. Per questo, in tanti decidono di andare a fare ricerca ed esperienza all’estero”, ammette Arturo Falaschi, direttore del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (Icgeb) di Trieste. “L’intreccio che si è creato il potere accademico e i sindacati ha impedito la mobilità nel mondo della ricerca. Da noi, il precariato è un fenomeno diffuso e malsano. Questo è vero, però, soltanto se lo guardiamo rispetto alla nostra situazione, in cui l’unico obiettivo è ottenere il posto fisso, e chi non ce l’ha è costretto a vivere con poco più che rimborsi spese. Aprire nuove possibilità non significa necessariamente avere più contratti a vita”, aggiunge Falaschi, “andranno piuttosto istituiti contratti a termine, ma con dei veri e propri stipendi con cui ci si possa mantenere”.

Ma chi sono oggi quei pochi fortunati che raggiungono l’agognata meta del “posto fisso”? L’ingresso nei ranghi del ceto accademico rappresenta l’esito di una selezione progressiva che si svolge in diverse tappe, a partire dall’ingresso nel sistema scolastico. “E poi si perfeziona nel lungo periodo di precariato economico e professionale, che prevede la cooptazione entro i ranghi dell’accademia”, scrive il sociologo Roberto Moscati nel libro “Chi governa l’Università?”. “La forte selezione di carattere informale”, continua Moscati “avvenuta in occasione della creazione della figura del ricercatore e basata sulla disponibilità degli aspiranti a tollerare tempi di attesa di inserimento in ruolo molto lunghi, ha scoraggiato le fasce socialmente più deboli”. Insomma, ce la fa chi ha più pazienza, o chi ha i mezzi economici per potersi permettere il lusso della pluriennale attesa. O magari chi è dotato di entrambe le qualità. Ma non è detto che sia sempre il “più bravo”.

Chi ha invece una situazione meno privilegiata sul piano culturale, sociale ed economico, oppure, più semplicemente, ha voglia di entrare nel mondo della ricerca senza attendere troppo, spesso ha un’unica alternativa: andare all’estero. “Sono in partenza per gli Stati Uniti, dove ho vinto una borsa all’Università di Houston”, dice Matteo Vatta, 33 anni, biologo molecolare. “Ma non so se prima o poi tornerò in Italia. Ora potrò arricchirmi sul piano scientifico e professionale, ma rischio di essere emarginato dalla ricerca italiana: dopo 4-5 anni fuori, chi torna deve fare anticamera”. Andare all’estero può dunque diventare un problema? “In Italia l’attitudine a collaborare con persone diverse, in giro per il mondo, viene vista come un’anomalia”, sostiene Omar Benhar, ricercatore dell’Infn, visiting professor alla Old Doiminion University, in Virginia. “Negli Stati Uniti, invece, dimostrare di saper lavorare in contesti diversi è considerato uno dei presupposti per aspirare a una posizione permanente all’università”.

La “fuga dei cervelli” è un problema per l’intera comunità dei ricercatori. Precari e assunti. “La carriera del ricercatore non è appetibile, non stimola i migliori giovani a intraprenderla, soprattutto negli enti”, sottolinea Vincenza Celluprica, segretario generale dell’Associazione nazionale ricercatori degli enti pubblici di ricerca. “Se i migliori vanno all’estero e non si fanno assunzioni con regolarità, la comunità degli scienziati invecchia. E la mancanza di uno scambio generazionale è causa di un ulteriore impoverimento della nostra vivacità scientifica”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here