Scienza 1997 Il paradosso europeo

Le comuni necessità di bilancio stanno disegnando un quadro pressoché uniforme di relativo disinvestimemto in Ricerca e Sviluppo nei tre poli principali. In Nord America, nell’Unione Europea e in Giappone le spese in R&S crescono meno velocemente dell’economia complessiva. In qualche caso diminuiscono in termini assoluti.

Mentre la “voglia”, questa sì crescente, di competere nel mercato considerato strategico delle alte tecnologie, sta portando l’Europa e il Giappone a scelte del tutto diverse di allocazione delle (non trascurabili) risorse residue. E sono scelte che sembrano in qualche modo rompere con il passato.

Nell’ “astratta” Europa, infatti, sta prevalendo, netta, l’intenzione di sfrondare i fondi dela ricerca fondamentale e applicata di frontiera, soprattutto a livello internazionale, e di riorientare le proprie risorse a favore della ricerca molto finalizzata e dello sviluppo tecnologico per ottenere un incremento, (si spera) immediato, della propria competitività economica. Nel “concreto” Giappone sembrava prevalere la scelta opposta: si punta in modo deciso sullo svilupo della scienza di base, per dare salde fondamenta culturali e una prospettiva di lungo periodo alla propria competitività tecnologica.

In questo quadro generale si evidenzia un paradosso europeo. Secondo il “Libro verde sull’innovazione” realizzato dalla Commissione Europea nel 1996, esso sta tutto nel fatto che i risultati scientifici raggiunti dai 15 paesi dell’Unione sono eccellenti e, spesso, superiori a quelli di Stati Uniti e Giappone. Mentre i risultati industriali e tecnologici dell’Unione non solo sono inferiori a quelli dei suoi due principali competitori, ma appaiono in declino. Uno sguardo ai principali indicatori delle performance scientifiche degli ultimi anni sembra confermare questa analisi. Negli anni ‘80 e negli ‘90 i 15 paesi dell’Ue hanno speso complessivamente per la R&S quasi il doppio del Giappone e circa i due terzi degli Stati Uniti.

La produttività scientifica di questa spesa è stata notevole. Lo indica il fatto che nel dopoguerra i 15 paesi che formano l’attuale Ue hanno vinto i due terzi dei Nobel ottenuti dagli Stati Uniti nelle tre discipline scientifiche premiate a Stoccolma. Ma lo indica soprattutto il fatto che il numero di articoli pubblicati sulle più accreditate riviste scientifiche internazionali da scienziati dell’UE è ormai quasi uguale al numero di articoli pubblicati da scienziati Usa e ben 4 volte superiore al numero di articoli pubblicati da scienziati giapponesi. Insomma, a parità di spesa gli scienziati europei pubblicano di più e quindi risultano più produttivi sia rispetto agli scienziati americani (del 30%) che dei giapponesi (addirittura del 125%). Questa tendenza degli europei alla maggiore produttività scientifica non è effimera: è sostanzialmente stabile rispetto agli americani e in progressivo aumento rispetto ai giapponesi. Insomma, sembra proprio che il ricercatore europeo faccia fruttare più di ogni altro i quattrini spesi dal contribuente.

E ora eccoci al paradosso europeo. A fronte di questa comprovata produttività nell’acquistare conoscenza scientifica, la ricerca europea sembra produrre relativamente pochi risultati sul fronte delle tecnologie applicabili all’industria e al commercio. I brevetti conseguiti negli Stati Uniti sono considerati un indicatore della creatività tecnologica di un sistema di ricerca. I quindici paesi dell’Ue riescono a ottenere, ormai, solo un brevetto su 5 tra quelli rilasciati negli Stati Uniti. Valutando, sulla base di questo solo indicatore, l’efficienza tecnologica della spesa in R&S, scopriamo che la produttività brevettuale della ricerca europea raggiunge appena la metà di quella americana e non raggiunge neppure il40% della produttività giapponese. Dato ancora più importante: il divario tra l’efficienza tecnologica europea e quelle di Usa e Giappone tende rapidamente ad aumentare.

Eccolo, dunque, il paradosso: in Europa la creatività scientifica si sta disaccoppiando dalla creatività tecnologica. La prima aumenta mentre la seconda velocemente diminuisce. Se a questo dato si associa il fatto che i paesi dell’Ue sono, ormai, scarsamente competitivi in settori industriali considerati strategici, quali l’elettronica e l’informatica, allora non sono davvero infondati i timori che, pur restando una grande potenza culturale, l’Europa rischi di diventare una colonia tecnologica.

Questa analisi e questi timori stanno portando molti governi dell’Ue, alle prese con i tagli di bilancio, a rimettere in discussione il (variegato) modello europeoe a cercare di promuovere l’innovazione tecnologica spostando risorse dalla ricerca di base alla ricerca applicata industriale. Si tratta di una scelta saggia e ben motivata?

In realtà, prima di effettuare un simile passo che potrebbe danneggiare le potenzialità culturali del vecchio continente e la sua creatività, anche tecnologica, di lungo periodo senza aumentare la sua competitività immediata sul mercato delle tecnologie d’avanguardia, occorre tener conto di molti altri fattori.

Il primo è che l’Unione Europea, nel suo complesso, “crede” poco nell’innovazione. Certo meno di Stati Uniti e Giappone. E lo dimostra non solo e non tanto il fatto che investe in R&S solo il 2% della sua ricchezza, contro il 2,6% degli Usa e il 2,7% del Giappone (7). Ma lo dimostra soprattutto il fatto che i ricercatori, i tecnici e gli ingegneri rispetto alla popolazione attiva (4 su 1000) in Europa sono poco più della metà, rispetto a quelli degli Stati Uniti e del Giappone (7 su 1000). D’altra parte in Europa solo la metà della spesa in R&S è finanziata dalle imprese, contro il 60% degli Stati Uniti e il 70% del Giappone. Per di più gli investimenti in R&S da parte delle imprese europee sono diminuiti in questa prima parte degli anni ‘90.

Il secondo fattore da tenere in considerazione è che la ricerca di base, nazionale ed internazionale, lungi dal drenare risorse, potrebbe essere uno dei motori dell’innovazione. Non a caso uno studio ad hoc della European Science Foundation, redatto lo scorso mese di giugno, consiglia la Commissione dell’Ue di aumentare il sostegno alla ricerca di base nel prossimo Programma Quadro, se vuole incrementare la competitivita` europea nei settori considerati strategici.

Il terzo, e non ultimo, fattore da tener presente è che il “paradosso europeo” potrebbe nascere non tanto dalla preponderanza della ricerca accademica sulla ricerca industriale, quanto dalla scarsa capacità di trasferire le conoscenze, acquisite con elevata produttività dagli scienziati europei, dalle università e dai centri di ricerca alle industrie e ai servizi.

* Estratto dal Dossier “La ricerca dello sviluppo” pubblicato sul numero 5 (ottobre 1996) della rivista “Sapere”

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