Scimmie ogm di seconda generazione

La proteina fluorescente verde (Green fluorescent protein,Gfp, vedi Galileo) è diventata carattere ereditario. È la prima volta che una mutazione genetica indotta si trasmette di madre in figlio in un primate. Ne danno notizia dalle pagine di Nature  Erika Sasaki e Hideyuki Okano della Keio University School of Medicine (qui il link allo studio). 

I ricercatori hanno selezionato esemplari di uistitì dai pennacchi bianchi (Callithrix Jaccus, una piccola scimmia del Nuovo Mondo della famiglia dei cebidi) già utilizzata in laboratorio per studiare le terapie rigenerative del midollo spinale. In 91 embrioni in vitro è stato introdotto il gene della proteina Gfp, isolata originariamente dalla medusa Aequorea victoria, tramite un vettore virale. Successivamente gli embrioni sono stati impiantati nell’utero delle future madri. Al termine della gravidanza, cinque nuovi nati presentavano il gene della proteina fluorescente nel proprio corredo genetico, compresi due gemellini Kei e Kou (Keikou in giapponese vuol dire fluorescente). In un secondo momento gli scienziati hanno usato lo sperma di uno dei cinque uistitì per fecondare gli ovociti di una femmina non geneticamente modificata. Anche la seconda generazione presentava la Gfp e brillava ai raggi Uv.

È il primo esperimento con retrovirus sui primati ad avere successo: nel 2008, i ricercatori avevano tentato di integrare il Dna degli embrioni di scimmia con il gene della malattia di Huntington, (patologia che altera la capacità dei centri nervosi di controllare il movimento volontario), ma non vi era stata trasmissione del gene ai discendenti.

I risultati potranno aprire la strada a nuove applicazioni in campo biomedico per studiare il decorso di malattie neurodegenerative come il Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Nonostante il successo ottenuto, Hideyuki Okano ha precisato che potrebbe non essere possibile usare questa tecnica per studiare tutte le patologie: “Possiamo solo introdurre geni portati da virus, quindi la grandezza dei geni è limitata a circa 10mila basi (le lettere che formano il codice, ndr.)”.  (e.r.)

Riferimento: Nature doi:10.1038/459492a

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