Sfida italiana all’Hiv

La sfida all’Hiv continua. E questa volta è la ricerca italiana a segnare un punto a suo favore: nei laboratori dell’Istituto superiore di sanità, a Roma, è nato infatti il primo vaccino anti-Aids efficace sulle scimmie. A metterlo a punto, dopo due anni e mezzo di lavoro, è stata l’équipe guidata da Barbara Ensoli, del Laboratorio di virologia diretto da Paola Verani. I risultati, ottenuti per ora solo sui macachi, sono incoraggianti. E apriranno la strada, tra un anno, alla sperimentazione sull’uomo.

La speranza che il vaccino funzioni anche sulla specie umana è forte, visto che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2000 quasi 40 milioni di persone nel mondo saranno infettate dal virus. Anche perché tutti i tentativi di bloccare l’infezione con un vaccino sono, almeno per il momento, falliti. “I vaccini sperimentati sino a oggi hanno utilizzato proteine di superficie dell’Hiv, come la Gp160 o la Gp120, cioè le proteine che servono al virus per entrare nella cellula ospite e dare il via all’infezione”, spiega Paola Verani. “Purtroppo, i risultati degli studi condotti sui primati per valutare l’effetto preventivo dei vaccini costituiti dalla Gp160 sono stati contraddittori, e quelli sugli effetti terapeutici decisamente poco incoraggianti. La messa a punto di un vaccino davvero efficace è ostacolata dal fatto che l’Hiv è un virus capace di mutare continuamente perché la produzione delle proteine del suo involucro è regolata da tratti di Dna virale molto variabili”, continua Verani.

Proprio per aggirare l’ostacolo, i ricercatori italiani hanno scelto un’altra strada. L’antigene di cui si sono serviti per costruire il vaccino, infatti, non è una proteina di superficie, ma una proteina che regola la replicazione virale, la Tat. “Questa proteina – prosegue Verani – gioca un ruolo importante anche nell’insorgenza e nella progressione del sarcoma di Kaposi, il tumore più frequentemente associato all’Aids. L’abbiamo scelta perché rimane praticamente identica in tutti i ceppi virali, e garantisce l’efficacia del vaccino su più varianti dell’Hiv. Inoltre non è tossica, non produce effetti collaterali e induce una risposta immunitaria completa”.

La Tat è dunque stata iniettata nelle scimmie nella sua forma naturale e biologicamente attiva, in modo da stimolare il sistema immunitario degli animali, e renderlo in grado di combattere l’infezione da Hiv. Per aumentare le probabilità di successo, poi, i ricercatori italiani hanno studiato anche altre strade: sono in corso sperimentazioni sulle scimmie con un vaccino costituito da quel tratto del Dna virale necessario per sintetizzare la Tat. Non solo. La proteina chiave nella replicazione virale viene impiegata in forma inattiva anche in una sperimentazione all’Ospedale Maggiore di Milano su un gruppo di volontari sieropositivi. Alcuni pensano infatti che possa essere pericoloso utilizzare direttamente la proteina naturale.

La storia di questo successo italiano parte da lontano. “Due anni fa abbiamo cominciato a vaccinare i primi macachi”, ricorda Verani. Poi, nel luglio di quest’anno, le scimmie vaccinate e quelle non vaccinate sono state infettate con un virus “chimera”, lo Shiv, costruito in laboratorio unendo due virus diversi: il Siv, il virus dell’immunodeficenza acquisita delle scimmie, e l’Hiv, quello che colpisce la specie umana. A distanza di tre mesi dall’inoculazione, cinque macachi su sette sono risultati protetti dall’infezione: una percentuale di successo pari al 70 per cento.

Gli esperimenti sull’uomo partiranno tra un anno. Ma, avvertono gli esperti, ci vorranno almeno cinque anni per avere i risultati. “Prima di essere utilizzato sugli esseri umani – avverte Gianni Rezza, responsabile del Centro operativo Aids dell’Istituto superiore di sanità – il vaccino deve infatti superare tre fasi. Nella prima sarà provato su pochi volontari sani, per valutare il dosaggio ottimale e la sicurezza. Nella fase 2, che allarga il numero delle persone arruolate, si studieranno le risposte immunitarie, il dosaggio e i tempi. Nella terza fase si valuterà infine se il vaccino è davvero efficace nel prevenire l’infezione su una grande popolazione ad alto rischio di infezione, come per esempio quella del Sud est asiatico o dell’Uganda”.

Se i risultati saranno positivi, il vaccino potrebbe in futuro essere usato per prevenire l’infezione nei soggetti sani e per combattere la malattia nelle persone già infette, insieme ai farmaci già oggi disponibili, come gli inibitori delle proteasi e della trascriptasi. “Il successo dei ricercatori romani – conclude Rezza – è la dimostrazione che il Progetto nazionale sull’Aids, avviato nel 1989 dall’Istituto superiore di sanità, comincia a dare i suoi frutti”.

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