Shakespeare archiviato nel Dna

Un tempo c’erano gli archivi con i loro scaffali pieni zeppi di faldoni contenenti documenti di ogni genere e sorta. Oggi c’è il Dna, una molecola così versatile da poter essere utilizzata persino per archiviare i miliardi di miliardi di dati digitali prodotti oggi nel mondo. Ricercatori dello European Bioinformatics Institute (Embl-Ebi), in Gran Bretagna, e ingegneri dell’Agilent Technologies, una compagnia di elettronica con base in California, hanno infatti lavorato assieme per mettere a punto una nuova tecnologia che permetterebbe di immagazzinare 100 milioni di ore di filmato in alta qualità in un piccolissimo frammento di Dna. Per capire come ci sono riusciti basta leggere lo studio pubblicato su Nature.

Avete mai sentito parlare di zettabyte? È una delle unità di misura dell’informazione, una cifra stratosferica che corrisponde a mille miliardi di miliardi. Ebbene, oggi nel mondo esistono circa tre zettabyte di dati digitali, un numero destinato a crescere considerando l’enorme quantità di informazioni che vengono messe in circolo quotidianamente in ogni angolo della Terra. Ma come conservare questa gigantesca mole di dati? Gli hard disk sono costosi e ingombranti, mentre i nastri magnetici si rovinano in una decina d’anni, troppo poco per poter garantire un’archiviazione a lungo termine. Perché allora non usare il Dna? “E’ piccolo, compatto e non consuma energia per immagazzinare dati”, spiega Nick Goldman, il ricercatore della Embl-Ebi a capo dello studio. In più, si conserva per migliaia di anni.

L’idea di utilizzare la regina delle molecole biologiche per archiviare dati non è nuova, e qualche successo in questa direzione era già stato raggiunto. Ma le vecchie tecniche impiegate per convertire le informazioni digitali in sequenze di nucleotidi (i mattoni del dna) erano suscettibili di errori e permettevano di immagazzinare solo piccole quantità di dati. La nuova tecnologia messa a punto dai ricercatori bypassa questi problemi. Ecco come funziona: l’informazione digitale espressa in bit viene prima convertita in trit, cioè l’unità di base di un sistema numerico che utilizza tre cifre (generalmente 0, 1 e 2) al posto di due (0 e 1); a ogni trit viene poi fatto corrispondere un nucleotide. In questo modo, è stato possibile assemblare lunghi filamenti di dna in cui, grazie alle molteplici combinazioni numeriche possibili con un codice a tre cifre, era quasi impossibile avere vicino due nucleotidi dello stesso tipo (la maggior fonte di errore in questo tipo di tecnologie). Il filamento è stato quindi spezzato in piccole porzioni (più facilmente manipolabili) a cui sono state legate sequenze indice che ne indicavano la posizione all’interno del filamento originale.

Utilizzando questa tecnica, il gruppo di Goldman ha trasformato in dna varie tipologie di dati digitali per un toltale di oltre 700 kilobyte: un mp3 tratto dal celebre discorso di Martin Luther King I have a dream; una foto in jpg della Embl-Ebi; il pdf di un articolo di Watson e Crick (i due scienziati che scoprirono la struttura a doppia elica del dna); un file di testo dei sonetti di Shakespeare. Questa conversione ha generato più di 153mila frammenti di Dna piccoli come un granello di polvere. Dal sequenziamento di queste porzioni di materiale genetico, poi, è stato possibile risalire ai file originali con un’accuratezza del 100%. “Abbiamo creato un archivio capace di immagazzinare dati per 10mila anni, o forse più”, afferma Goldman. Ora i ricercatori sono al lavoro per perfezionare il processo con la speranza di poter presto disporre di molecole di Dna sintetico dalle stesse funzionalità di un hard disk.

Via: Wired.it

Credits immagine: Gravitywave/Flickr

Martina Saporiti

Laureata in biologia con una tesi sui primati, oggi scrive di scienza e cura uffici stampa. Ha lavorato come free lance per diverse testate - tra cui Le scienze, Il Messaggero, La Stampa - e si occupa di comunicazione collaborando con società ed enti pubblici come l’Accademia dei Lincei.

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