Si possono curare le malattie rare con la terapia genica?

    A un anno dalla sigla dell’accordo fra Telethon e la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline arrivano i primi risultati della ricerca sulla terapia genica applicata alle malattie rare. In particolare, la partnership riguarda la possibilità di standardizzare le conoscenze che nel corso degli ultimi anni i ricercatori di Telethon hanno acquisito in questo campo per cercare di farne un trattamento disponibile su larga scala. “ Insomma, l’idea è quella di far diventare la terapia genica un farmaco, in modo che tutti quelli che ne hanno bisogno possano riceverlo”, dice Luigi Naldini, direttore dell’Hsr-Tiget, pensando alle ricadute future dei suoi studi. 

    Per ora, infatti, con la terapia genica sono stati trattati 14 piccoli pazienti affetti da immunodeficienza Ada Scid, il deficit che rende l’organismo incapace di affrontare qualsiasi infezione, tanto che chi ne è affetto deve vivere in ambienti completamente sterili: un singolo trattamento che gli ha permesso di tornare a svolgere una vita normale. “Al momento stiamo anche sperimentando la sicurezza e l’efficacia della terapia genica nei confronti di due gravi malattie genetiche: la sindrome di Wiskott-Aldrich, rara immunodeficienza, e la leucodistrofia metacromatica, che colpisce invece il sistema nervoso e porta alla perdita progressiva delle capacità cognitive e motorie”, spiega ancora Naldini. “A oggi sono sette in totale i bambini trattati: per quanto sia ancora prematuro trarre delle conclusioni – i risultati definitivi li avremo soltanto tra due anni –  i primi dati sono molto incoraggianti. La terapia è risultata priva di effetti collaterali immediati e molto efficiente in termini di trasferimento del gene corretto nell’organismo di questi pazienti”. La rosa di sette malattie a cui stanno lavorando Telethon e Gsk comprende anche la beta talassemia, tra le più diffuse malattie ereditarie del sangue, la leucodistrofia globoide, in cui la mancanza di un enzima porta alla perdita di vista e udito e alla morte entro i primi tre anni di vita, la mucopolisaccaridosi 1, rara malattia ereditaria che nella sua forma più grave porta deformità scheletriche e ritardo psicomotorio, e la granulomatosi cronica, grave patologia del sistema immunitario. Malattie molto diverse fra loro ma accomunate dalla possibilità di essere trattate grazie all’ infusione di cellule staminali ematopoietiche corrette. 

    Ma come funziona questa particolare terapia genica? La tecnica utilizzata dai ricercatori dell’Istituto Telethon di Milano (Hsr-Tiget) – adottata per la prima volta al mondo da Maria Grazia Roncarolo e Alessandro Aiuti – prevede il prelievo dal midollo osseo del paziente delle cellule staminali ematopoietiche, quelle cioè da cui si generano i vari tipi di cellule del sangue. Queste cellule vengono quindi manipolate in laboratorio e al loro interno viene inserito un vettore virale che contiene il gene terapeutico.

    Così corrette, le cellule vengono nuovamente reintrodotte nell’organismo, opportunamente preparato grazie a specifici farmaci per favorirne l’attecchimento. Usare le cellule del paziente, e non quelle di un donatore, vuol dire non andare incontro al rigetto, perché anche se corrette l’organismo riconosce quelle cellule come proprie, e non le attacca. 

    Spesso, parlando di terapia genica si è posto l’accento sul problema della sicurezza: il virus usato per traghettare il gene può andare ad attivare anche altri geni coinvolti nello sviluppo di alcune forme di cancro. Il gruppo dell’Hsr-Tiget usa ormai da alcuni anni dei virus, i lentivirus, con un profilo di sicurezza maggiore: “ una volta espletata la loro funzione, questi virus vanno in quiescenza e anche se capitano vicino a degli oncogeni raramente li innescano”, spiega Naldini. Peraltro lo studio del comportamento dei vettori virali è uno dei punti oggetto del finanziamento di Gsk: “vogliamo aumentarne l’efficacia e la sicurezza e sviluppare un approccio rivoluzionario che di permetterà di riscrivere  il genoma e correggere direttamente le mutazioni causa di malattia nelle cellule dei pazienti, ripristinandone così tutte le funzioni”, sottolinea Naldini. 

    Il profilo di sicurezza è infatti un punto chiave per rendere di routine quello che oggi è un trattamento speciale. L’obiettivo della partnership, quindi, ha per obiettivo quello di individuare le procedure per poter produrre in futuro i vettori virali su scala industriale, standardizzare le tecniche di manipolazione delle cellule in laboratorio, rendere i protocolli sicuri. “Per esempio, vogliamo capire se possiamo congelare le cellule del paziente in modo da poterle manipolare in un laboratorio anche diverso da quello dell’ospedale che ha in cura il paziente”, va avanti il direttore dell’Hsr-Tiget. “In questo modo la procedura sarebbe centralizzata e quindi più sicura, e il malato dovrebbe andare in ospedale solo al momento della re infusione”.

    Via Wired.it

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