Stamina, le staminali dove sono?

Da oggi sarà forse più chiaro perché Davide Vannoni, il padre del discusso metodo Stamina, ha finora custodito gelosamente la documentazione relativa alla sua “ricetta”. L’intera vicenda, che negli ultimi mesi ha infiammato l’opinione pubblica ed è finita addirittura sulle pagine di Nature – solo pochi giorni fa, la rivista ha pubblicato un rovente editoriale dal titolo “Il fiasco delle staminali deve essere fermato” – è giunta all’ennesimo punto di svolta. Stando a quanto appena rivelato da La Stampa, che ha avuto modo di leggere il rapporto dei Nas e del comitato di esperti nominato dal ministro Lorenzin, le colture preparate da Vannoni non solo non conterrebbero popolazioni di cellule staminali, ma sarebbero anche potenzialmente dannose per la salute, anziché essere in grado di arrestare il decorso di malattie neurodegenerative come Sla o Sma1, come sostiene lo psicologo di Udine.

In realtà, qualche informazione simile era già trapelata. Alla fine di settembre, L’Espresso aveva analizzato il documento con cui gli ispettori dell’Istituto Superiore di Sanità avevano bocciato la cura basata sulle cellule staminali, evidenziando tutti i limiti del “metodo” – test mancanti, confusione sulle dosi, nessuna prova di efficacia. La documentazione riguardava 12 pazienti, 4 adulti e 3 bambini, affetti da patologie molto diverse tra loro (dal Parkinson all’atrofia muscolare spinale, dall’asfissia cerebrale neonatale alla malattia di Niemann Pick A), che avevano ricevuto cinque cicli di infusioni. Senza troppi controlli sul materiale inoculato, a quanto pare, dato che, come si leggeva nella relazione dell’Iss, “non sono disponibili i referti di alcuni esami previsti per il donatore: in particolare, non sono disponibili i risultati dei test per sifilide [e] Hiv 1 e 2”. E ancora: “Dal confronto tra il protocollo e il Foglio di lavorazione, risulta che non vi è sempre corrispondenza tra il numero di cellule previste dal protocollo stesso e quelle effettivamente infuse. Su 56 infusioni effettuate, solo in 7 casi i dosaggi previsti corrispondevano a quelli realmente infusi. Negli altri casi la discrepanza varia tra circa la metà e più del doppio della dose prevista”. Per non parlare poi delle condizioni dei laboratori in cui venivano preparate le colture – che “non sono tali da garantire la protezione del prodotto da contaminazioni ambientali”.

Al di là dei precedenti poco ortodossi di Vannoni, tra cui una frode scientifica nella presentazione del brevetto, poi ritirato, le rivelazioni odierne rincarano la dose. Racconta La Stampa che l’analisi condotta da Nas, Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco), Iss e Centro Nazionale Trapianti farebbe supporre “l’uso di siero fetale bovino nei terreni di coltura” – una pratica “non vietata, ma sconsigliata”, purché “per ridurre i rischi di natura infettiva […] il siero fetale bovino provenga da animali allevati e sacrificati in Paesi privi di Bse [la sindrome da mucca pazza, nda]”. Ma l’équipe di Vannoni non ha mai certificato la provenienza del siero. Il che espone potenzialmente i pazienti al rischio di contrarre la malattia. C’è dell’altro: “Il terreno di coltura contiene antibiotici” e detriti vari, che potrebbero provocare micro embolie polmonari e cerebrali.

Ma cosa c’è davvero, allora, nel “frullato” di Vannoni? Nessuno lo sa esattamente. Lo stesso Vannoni si cautela, facendo firmare ai pazienti un consenso informato nel quale “si dichiara che le cellule somministrate possono essere leucociti del sangue, di solito mescolate ad altri componenti minori […] oppure cellule più purificate quali le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo”. Ma la conclusione degli scienziati, in ogni caso, è piuttosto netta. E lascia poco spazio alle interpretazioni: “La popolazione che si ottiene non è purificata, non è omogenea, non è una popolazione di cellule staminali”. Tocca a Vannoni, adesso, provare a rispondere.

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