Categorie: Società

Stonehenge tra le dune

Megaliti conficcati nel terreno e allineati secondo linee ben precise. Grandi lastre di pietra, alcune distese altre verticali, disposte in circoli. Questo, accanto a focolai, ceramiche e resti di capanne, hanno rivelato le sabbie del deserto nubiano all’archeologo Fred Wendorf della Southern Methodist University di Dallas, da diversi anni direttore della missione che effettua ricerche nella depressione di Nabta(Egitto meridionale). Inevitabilmente si pensato a una struttura templare preistorica che avesse qualche connessione con il movimento degli astri, una nuova Stonehenghe insomma, ma ben più antica del famoso complesso britannico. E la conferma è venuta dagli studi condotti l’estate scorsa dall’astrofisico J. McKim Malville della University of Colorado, ora pubblicati su Nature.

I cinque allineamenti di megaliti identificati rimandano a un punto, dove sono stati rinvenuti diversi agglomerati ovali di grandi lastre di pietra. “L’ipotesi che queste fossero strutture tombali è stata subito accantonata, perché scavando non vi abbiamo trovato traccia di sepoltura umana”, spiega McKim Malville. “Abbiamo trovato però pietre scolpite che potrebbero corrispondere a cenotafi più antichi sopra i quali sono state poi realizzate le strutture ovali”.

Ma le sorprese maggiori sono venute dagli studi condotti su una struttura circolare di pietre non lontana dai megaliti, di circa 4 metri di diametro. Le quattro coppie di pietre verticali che interrompono la sequenza circolare di lastre distese costituiscono altrettante “porte” allineate: le prime due in direzione nord-sud, le altre in direzione del sorgere del sole all’orizzonte nel solstizio d’estate. “Nelle zone tropicali, dove il sole incrocia lo zenith due volte l’anno (a Nabta ciò accade tre settimane prima e tre dopo il solstizio), queste sono considerate ancor oggi giornate particolarmente significative”, continua McKim Malville. “E pure la direzionalità nord-sud doveva avere un valore per i popoli nomadi del deserto, se anche molte delle lastre di pietra verticali rinvenute hanno il loro lato lungo allineato in questo modo”.

Erano dunque conoscenze astronomiche assai sofisticate quelle possedute dalle popolazioni preistoriche a Nabta. La frequentazione avvenne, come in molte altre depressioni sahariane, in tre momenti distinti nel Neolitico antico, medio e tardo, quando la linea dei monsoni estivi si spostò dall’Africa centrale all’Egitto, trasformando temporaneamente, grazie alle piogge, le depressioni desertiche in bacini lacustri (detti playas). Questi tre periodi vennero intervallati tra loro da ritorni dell’aridità 7.300-7.100 anni fa, 6.700-6.500 anni fa e circa 4.800 anni fa (l’ultimo inaridimento che ha prodotto il deserto attuale).

Le prime tracce della presenza di nomadi a Nabta risalgono a circa 10.000 anni fa, mentre a 8.000 anni fa è databile il primo villaggio, dotato anche di grandi pozzi. Poiché dovettero necessariamente essere frutto di uno sforzo collettivo, per Wendorf e colleghi questi pozzi sono il primo segno di una struttura sociale che progredirà al punto da condurre alla realizzazione delle grandi costruzioni templari megalitiche nel Neolitico medio e tardo. E data la stretta dipendenza delle popolazioni di Nabta dai monsoni estivi, gli studiosi concludono che questi templi, e in particolare i megaliti indicanti il solstizio d’estate, erano stati concepiti per annunciare l’arrivo della stagione delle piogge, ed erano quindi portatori di fertilità.

Giungono infine a ipotizzare che i nomadi sahariani, abbandonando Nabta a seguito dell’ultimo inaridimento e spingendosi verso le fertili terre nilotiche, abbiano portato con sé la propria cultura e la sofisticata cosmologia, contribuendo in tal modo al sorgere della civiltà egizia. Solo 500 anni dopo infatti fu costruita a Saqqara la prima piramide.

“E’ opportuno inserire questi studi nel più ampio contesto dello sviluppo della civiltà preistorica in Egitto e in particolare nel deserto occidentale”, osserva Barbara Barich, docente di Etnografia preistorica dell’Africa all’Università di Roma “La Sapienza” che, tra l’altro, dirige la missione italo-anglo-egiziana nell’oasi di Farafra. “Le ricerche condotte nelle varie depressioni desertiche sahariane e nei siti preistorici della valle hanno individuato in questi ultimi anni numerose testimonianze del formarsi di un’avanzata organizzazione sociale e dello sviluppo di attività proto-agricole nel Neolitico che evidenziano una continuità culturale tra questo e il sorgere dello stato dinastico nell’Egitto antico.

Tutto ciò serve a smentire la convinzione diffusa (anche per motivi razziali) che la civiltà egizia sia una specie di unicum nel contesto africano, qualcosa di più nobile, culturalmente e idealmente vicino alle coeve civiltà della fertile mezzaluna. Al contrario, noi dimostriamo, dati alla mano, che le radici dell’antico Egitto sono profondamente africane”.

“Non posso concordare tuttavia”, continua Barich, “con chi, come Wendorf, tende a condensare il complesso rapporto tra nomadismo sahariano e nascita dell’agricoltura e di un’organizzazione statale nella valle del Nilo in un unico evento, quello della definitiva trasformazione del Sahara in deserto. Al contrario, il processo che ha visto lo stabilirsi di una rete di contatti verso la valle si è protratto per millenni, e ha visto crescere sempre più l’importanza del contributo dei gruppi sahariani alla nascita della cultura egizia. Interessanti a questo proposito sono i ritrovamenti nell’oasi del Fayum, che evidenziano chiaramente come il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a una prima forma di orticoltura e domesticazione animale sia avvenuto per lenta e graduale infiltrazione di elementi dal deserto”.

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