Storia della definizione di morte

A cura di Francesco Paolo de Ceglia

Storia della definizione di morte

FrancoAngeli editore, 2014

pp. 686, € 55,00

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Questo volume raccoglie i contributi di trentasei giovani ricercatori che, con competenze diverse, hanno esplorato e messo in luce i differenti aspetti con cui il concetto di morte è stato elaborato, vissuto e comunicato nei secoli. La complessità dell’argomento, la documentazione accurata, la varietà degli argomenti trattati, la molteplicità dei punti di vista rendono estremamente interessante la lettura che lascia comunque spazio ad aperture problematiche e a nuovi approfondimenti.

Il percorso storico prende le mosse dall’antichità, con alcuni saggi che attraverso una ricca documentazione analizzano i riti e le testimonianze relative alla morte nelle civiltà antiche. Il tratto comune è rappresentato dalla credenza per cui, con modalità diverse, si immaginava che alla morte del corpo sopravvivesse un elemento spirituale. A seconda delle tradizioni religiose e delle conoscenze mediche acquisite si pensava che questi spiriti-spettri potessero stabilire contatti con le divinità, continuassero ad avere legami con la comunità dei vivi, avessero una loro sopravvivenza particolare e presentassero esigenze diverse che venivano soddisfatte dai riti funebri e dai corredi funerari.

In ogni cultura, tuttavia, le domande di fondo nascono dalla sofferenza legata alla mancanza di una persona cara e riguardano le possibilità di allontanare la morte individuandone segni premonitori. Medici e terapeuti sono chiamati per intervenire sul morente, per definire il momento in cui lo spirito abbandona il corpo, per dare certezza della morte avvenuta (F.P.de Ceglia, pp 9).

Le speranze di controllare o di evitare il momento della morte vengono offerte di volta in volta, nelle varie culture, da medicina, magia, religione, ritualità: le varie pratiche suggerite e attuate nelle diverse situazioni si intrecciano, a volte concordi e a volte in netta reciproca opposizione.

La tradizione medica greca aveva già portato l’attenzione sull’equilibrio tra due caratteristiche del vivente: la temperatura del corpo e un humidum radicale. Quando questo equilibrio si rompe, per cause naturali o indotto da qualche malattia, spetta all’arte medica trovare i modi per ricostituirlo, allontanando il processo di corruzione del corpo. Nelle diverse Scuole di medicina, le pratiche elaborate per compensare e correggere tali squilibri permettono di accrescere nel tempo le conoscenze sulle malattie, sulle eventuali cure e sulla fine della vita (A. D’Alessandro, pp. 97).

Proseguendo nel percorso storico e avvicinandosi a tempi più moderni, i saggi raccolti in questo volume affrontano da diversi punti di vista i modi in cui la cultura europea ha elaborato e sviluppato la definizione di morte.

Nel Medioevo europeo diventa sempre più importante la distinzione tra la morte naturale e morte accidentale dovuta a cause esterne, perchè diversi sono i modi per aiutare l’organismo che lotta per la sua sopravvivenza. Molti manuali di medicina descrivono accuratamente i segni prognostici che indicano la rottura degli equilibri interni e che si modificano lungo il decorso della malattia. Così per esempio sono segni di morte incipiente, insieme ad altri, “la fronte rossa, le sopracciglia inclinate verso il basso, la punta del naso bianca, il polso che aumenta, i piedi che si raffreddano”: il medico doveva riconoscere e interpretare questi segni per intervenire in modo appropriato.

Anche accertare il trapasso era compito del medico che cercava di attivare movimenti e reazioni del presunto morto, per esempio tirandogli i capelli, schiaffeggiandolo, provocandone il vomito. Questo avrebbe dovuto evitare la sepoltura di pazienti vivi o di morti apparenti, ma il segno veramente inequivocabile del decesso era l’inizio dei processi di putrefazione che si verificavano dopo alcuni giorni.

Nei secoli successivi, medici e fisiologi riuscirono ad individuare segni sempre più sicuri della morte dell’organismo: la bacinella colma d’acqua messa sullo sterno, che serviva per percepire meglio i movimenti respiratori o lo specchio che metteva in evidenza la condensazione dell’alito furono sostituiti dall’attenzione al battito cardiaco e alla ricerca delle pulsazioni arteriose in diverse parti del corpo.

La difficoltà di accertare la morte e, in particolare, di riconoscere il momento preciso in cui questa si verificava portò il ragionamento clinico a supporre che la morte non avviene in un istante definito, come tendeva a sostenere la Chiesa, ma che si tratta piuttosto di un processo che si svolge nel tempo (T. Duranti, pp. 165).

L’idea della morte come processo, anche se certamente non venne facilmente accettata e condivisa, stimolò la ricerca clinica a riconoscere l’interdipendenza delle varie funzioni vitali. Studi e ricerche fecero aumentare le conoscenze sulla fisiologia degli organismi vivi, indagando sulla loro realtà biologica e rafforzando il nuovo paradigma scientifico della medicina meccanicista.

Proprio l’attesa che il processo della morte si completasse nei diversi apparati, o addirittura nei diversi tessuti cellulari, fece sperare in tentativi di rianimazione che avessero successo. Si individuano così tecniche di reviviscenza che tentano di far battere un cuore parecchi minuti dopo essersi fermato, si studiano metodi che consentano l’ossigenazione del sangue a cuore fermo, si controlla che i centri nervosi non siano stati danneggiati dal blocco cardiaco. (L. Dibattista, pp. 275)

Comunque, l’accertamento della morte continua a presentare profonde problematicità e per rispondere a questa esigenza sono stati proposti, nel secolo scorso, nuovi modi di definire la morte stessa. I tentativi di trovare parametri inequivocabili, tuttavia, si scontrano con la variabilità delle opinioni e delle conoscenze mediche, culturali e religiose ma anche con il dolore dei parenti che spesso si rifiutano di accettare diagnosi definitive.

Inoltre, le nuove tecnologie danno la possibilità di mantenere artificialmente attive le funzioni vitali: questo non permette di stabilire con chiarezza il momento della morte che dipende sempre più da decisioni prese dai medici. Le tecnologie di rianimazione e la pratica dei trapianti d’organo hanno portato il problema all’attenzione dell’opinione pubblica e la grande responsabilità attribuita al medico ha fatto nascere, quasi per reazione, importanti rivendicazioni dell’autonomia del malato (B.Fantini, F. Rufo, p.349).

Un cambiamento radicale è avvenuto con la definizione cerebrale della morte, basato sulla constatazione della distruzione delle strutture neuronali del cervello. Nel 1968, infatti, è stato pubblicato un influente documento redatto dal Comitato della Harvard Medical School, dal titolo “A definition of irreversible coma” .Questo studio ha avuto grande peso per definire nuovi criteri di diagnosi su base neurologica, prendendo in considerazione il non-funzionamento irreversibile del tronco encefalico e, di conseguenza, anche della corteccia cerebrale.

Ovviamente anche sul testo di Harvard sono state proposte argomentazioni contrarie e favorevoli (M. Borgo, M. Picozzi, G. Armocida, pp. 361) ma molte legislazioni nazionali hanno accettato formalmente il nuovo criterio. Il dibattito è comunque sempre aperto, anche perché i differenti punti di vista prendono in considerazione oltre agli aspetti clinici anche quelli antropologici, psicologici, culturali e religiosi.

Anche la ricerca biologica ha dato i suoi contributi. Fin dal secolo scorso gli studi di fisiologia cellulare avevano messo in evidenza la complessa relazione tra la morte cellulare e quella dell’intero organismo: era infatti noto come ogni giorno morissero cellule che venivano continuamente rimpiazzate, mentre molte continuavano ad essere vive quando il corpo era ormai cadavere. La sperimentazione in genetica molecolare condotta negli ultimi anni ha descritto accuratamente i meccanismi cellulari di morte programmata, chiamata apoptosi, e ha individuato sia molti geni coinvolti in questo processo sia molti segnali provenienti dall’esterno capaci di attivarla. La scoperta del “segreto della morte” a livello macro e microscopico è ancora lontano, ma si è capito che una eccessiva attività apoptotica sta alla base di malattie degenerative come il morbo di Parkinson mentre una apoptosi carente può implicare crescita cellulare incontrollata e quindi neoplasie (A. Dröscher, pp.371)

Anche il diritto e la bioetica prendono in considerazione la morte e le modalità del suo accertamento, il primo ricollegando al decesso una serie di effetti giuridici previsti e disciplinati dalla legge (F.G.Pizzetti, pp. 391), la seconda, invocando un ripensamento sugli attuali parametri che consentono di accertare un decesso, proponendo di rendere più significativo e più sicuro il criterio neurologico (R. Barcaro, pp 415).

Recentemente il caso di Eluana Englaro ha messo in evidenza la drammaticità del conflitto tra etica, religione, tecnologia, legalità, politica… e ha portato all’attenzione pubblica la necessità di ridiscutere i confini tra natura e scienza, vita e morte, morale e immorale. Le contraddizioni emerse su questi temi hanno permesso di inserire un caso individuale in un contesto molto più ampio, aprendo un dibattito pubblico stimolato anche dalle posizioni sostenute da diversi media. (S. Giovannetti, L. Beltrame, pp.637)

Nella nostra società in cui l’immagine ha un ruolo sempre più prepotente, film, fictions, documentari hanno messo sotto gli occhi del pubblico morti ricostruite ma anche molte morti reali. I “mondo movies” raccolgono visioni spesso raccapriccianti destinate a spettatori avidi di shock; realismo e d effetti fittizi sono mescolati in modo da renderli spesso indistinguibili (A. Brodesco, pp 601). Il tabu della morte diviene sempre meno imperativo tanto che nei “medical dramas” la visione di pazienti che muoiono sotto i ferri dei chirurghi nonostante i vari tentativi di rianimazione con defibrillatori o altre modalità fanno parte di una quasi quotidiana esperienza televisiva.

E’ interessante l’analisi dei codici comunicativi con cui la morte viene visualizzata nei dramas più seguiti, ma è ancora più interessante rendersi conto di come queste visualizzazioni modificano le opinioni del pubblico sulla medicina moderna e sui miracoli medici. Le fictions inducono la speranza che medicina e tecnologia possano sconfiggere la morte che, attraverso la televisione, sembra essere diventata un argomento “da salotto”, almeno fino a quando le persone non vengono toccate direttamente da eventi luttuosi (S. Spataro, pp. 621).

Una ricchissima bibliografia completa ogni saggio, mettendo in evidenza la specificità dell’orizzonte culturale di ciascuno. Restano alcuni fondamentali punti di riferimento condivisi, come il ricchissimo testo di P. Ariès, L’uomo e la morte dal medio evo ad oggi, La morte e l’Occidente, di M. Vovelle e Soglie, Medicina e fine vita, di C.A.Defanti.

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