Covid-19, come funziona e come dovrebbe funzionare la terapia domiciliare

terapia domiciliare
(Foto: Kristine Wook on Unsplash

Un anno di pandemia ha insegnato molto ai nostri medici: quali farmaci possono essere utili anche prima del ricovero, quando vanno usati, e anche quali, nonostante le promesse, si sono rivelati inutili (o persino dannosi). Al contempo, però, i protocolli di cure domiciliari per questa malattia continuano a spuntare come funghi: protocollo Remuzzi, protocollo Bassetti, protocollo lombardo e per ultimo, il protocollo stilato dai medici afferenti al gruppo Facebook #terapiadomiciliarecovid19. Un proliferare di linee guida e pareri che negli ultimi mesi ha dato l’impressione che esista una certa confusione anche tra gli esperti. Anche perché, tra i farmaci che si sentono citare c’è un po’ di tutto: tachipirina, Fans, aspirina, antibiotici come l’azitromicina, demetasone e altri corticosteroidi, eparina, e anche integratori, vitamina D, farmaci controversi come l’idrossiclorochina. In realtà i dati raccolti dai medici iniziano a farsi sempre più chiari, e delineano un approccio terapeutico se non inoppugnabile, quanto meno promettente, che sembra diminuire concretamente il rischio di ricoveri nelle mani di un medico competente (non del paziente fai da te, ovviamente). Previsto ormai anche dalle indicazioni di Aifa e ministero della Salute, ma che forse meriterebbe di essere promosso con maggiore insistenza per garantire un’applicazione omogenea su tutto il territorio nazionale.

A guardare le linee guida istituzionali, in effetti, non si nota molta enfasi sulla terapia domiciliare. Nel documento si trovano principalmente indicazioni per la gestione dei pazienti con sintomatologia lieve o paucisintomatica, per i quali è prevista sostanzialmente la vigile attesa, intesa come monitoraggio attento delle condizioni di salute e il ricorso a trattamenti sintomatici (paracetamolo), in attesa di un miglioramento, o di un peggioramento che renda necessario il ricovero. Nel documento si specifica comunque quali farmaci e terapie non vanno utilizzati, per mancanza di prove della loro efficacia o perché potenzialmente dannosi per il paziente.


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“Da marzo, noi medici di famiglia abbiamo dovuto imparare sul campo come trattare Covid-19, sperimentando, perché mancava qualunque studio sulla corretta gestione di questa malattia”, racconta a Wired Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale. “Abbiamo chiesto con insistenza un protocollo nazionale al ministero, e alla fine è arrivato a fine novembre. Contiene quelle che riteniamo le raccomandazioni più avanzate basate sui dati scientifici disponibili: stop a idrossiclorochina e simili, che si sono rivelate a più riprese inutili se non dannose nei trial clinici effettuati, nessun ricorso a antibiotici, se non in caso di sospetta sovrainfezione, né supplementi vitaminici, integratori alimentari o antivirali, per i quali manca qualunque prova di efficacia”.

In caso di peggioramento del paziente verso una sintomatologia severa (e quindi a rischio di ospedalizzazione) il documento del ministero cita l’informativa Aifa sui farmaci ammessi per la terapia Covid-19, indicandone due il cui utilizzo è possibile anche in contesto domiciliare, seppur con le dovute cautele: corticosteroidi ed eparina, farmaci indirizzati a placare gli eccessi del sistema immunitario e prevenire coagulopatie e disturbi della circolazione, due delle complicazioni più gravi della malattia. “Sono farmaci importanti che possono prevenire ospedalizzazioni inutili e salvare la vita dei pazienti, ma vanno utilizzati in modo appropriato, dopo un’attenta valutazione dell’evoluzione dei sintomi”, continua Cricelli. “L’utilizzo profilattico è da evitare assolutamente, perché possono produrre un effetto paradosso peggiorando i sintomi della malattia, ma anche non prenderli in considerazione è un errore: sappiamo che hanno un’efficacia e per i pazienti rappresentano un’opportunità importante”.

I dati sui corticosteroidi arrivano dallo studio Recovery, che ha dimostrato una riduzione della mortalità nei pazienti ospedalizzati e sottoposti a ossigenoterapia con l’utilizzo di demetasone (un potente corticosteroide). Stando alle linee guida dell’Oms, i corticosteroidi somministrati a pazienti in stato critico possono prevenire 87 morti ogni mille pazienti, e risultano utili anche in pazienti con malattia severa ma non critica, con 67 decessi in meno ogni mille pazienti. Il documento Oms invita inoltre a utilizzare questi farmaci anche in setting domiciliare, per i pazienti con sintomatologia severa. Per quanto riguarda le indicazioni Aifa, i corticosteroidi sono riservati per l’assistenza domiciliare in caso di sintomatologia severa che non migliora nell’arco di 72 ore, e in presenza di valori pulsossimetrici (ossigenazione del sangue) che richiedono il ricorso all’ossigenoterapia. L’eparina, invece, è indicata per i pazienti con infezione respiratoria acuta e ridotta mobilità.

“Il razionale per l’utilizzo di questi farmaci è noto da tempo, e anche se attualmente arriva principalmente da evidenze istopatologiche è corroborato dall’esperienza di molti colleghi che li hanno utilizzati con successo per curare i propri assistiti”, conferma a Wired Stefano Tasca, pediatra e membro del gruppo Terapia Domiciliare di Pillole di ottimismo. “Eparina e corticosteroidi agiscono per prevenire le complicazioni di Covid-19 – legate non tanto alla replicazione virale quanto piuttosto alla complessa iperattivazione infiammatoria e immunologica – e se utilizzati correttamente possono contribuire efficacemente a ridurre i rischi di peggioramento e la necessità di ricovero per i pazienti”.

Il virus, con la sua replicazione, è infatti responsabile dei sintomi meno gravi di Covid. Sostanzialmente, quelli che la sindrome dovuta al nuovo coronavirus ha in comune con molte altre patologie respiratorie stagionali. Per quanto riguarda i sintomi più gravi, come polmonite interstiziale, microtrombosi del circolo polmonare, danni renali, cardiaci e neurologici, che necessitano di ricovero e mettono a rischio la vita dei pazienti, si tratta di fenomeni legati non tanto al virus in sé, quanto a quell’eccessiva risposta infiammatoria e disordinato reclutamento del sistema immunitario, che abbiamo imparato a conoscere come tempesta di citochine. Di conseguenza è facile e ragionevole ipotizzare che un farmaco antinfiammatorio e immunosoppressore potrebbe risultare utile per attenuare l’intensità di questi stessi fenomeni e limitare così i danni per l’organismo. Ed è esattamente quello che fanno i corticosteroidi come il demetasone. La cosa difficile è capire con precisione quando utilizzarli. Nelle fasi iniziali della malattia, quando la replicazione virale è elevata, esiste la possibilità che inibire il sistema immunitario produca un’esacerbazione della malattia: in fondo, è proprio il sistema immunitario l’unica arma che ci difende dall’invasione del virus nel nostro organismo.

Presi troppo tardi però risultano meno utili, perché i danni causati dall’infiammazione sono già iniziati, si accumulano e l’ospedalizzazione diviene inevitabile, con tutti i rischi che conosciamo bene di finire in terapia intensiva, o peggio. Quando prenderli dunque? Secondo Tasca la finestra temporale perfetta è quella che si apre tra le 48 e le 72 ore dall’insorgere di sintomi che lasciano sospettare l’inizio della fase di iperattivazione del sistema immunitario. Parliamo principalmente della deossigenazione e della difficoltà respiratoria, che idealmente andrebbero però intercettate un po’ prima che arrivino a livelli tali da necessitare di ossigenoterapia, per cercare di prevenire tutti i potenziali danni provocati dalla tempesta di citochine.

“Tutto sommato è quello che consigliano di fare i protocolli Aifa. Il problema è che molti medici di famiglia sono ancora reticenti a utilizzare dei farmaci che possono sembrare incompatibili con il trattamento di una malattia virale – conclude Tasca – ed è anche comprensibile in fondo, perché attualmente non possono visitare di persona i pazienti con sospetta infezione da Sars-Cov-2 e senza un contatto diretto può prevalere la cautela, anche se ingiustificata”.

“Le Usca, che dovrebbero occuparsi della gestione domiciliare dei pazienti non sono attive in numero sufficiente su tutto il territorio nazionale e non hanno ovunque le stesse competenze. Quindi la gestione precoce dei pazienti rischia di essere fatta a macchia di leopardo. Quello che servirebbe”, continua il pediatra,“ è innanzitutto eliminare le limitazioni che impediscono le visite dei medici di famiglia ai loro assistiti malati di Covid, e poi probabilmente un po’ più di attenzione da parte degli enti preposti verso l’assistenza precoce dei pazienti, fondamentale per diminuire i ricoveri e gestire più agevolmente l’epidemia. Un’organizzazione più attenta dell’assistenza domiciliare permetterebbe inoltre di raccogliere dati preziosi, e tutt’ora mancanti, sull’efficacia di questi farmaci, che permetterebbero di arrivare ad un protocollo nazionale validato da dati scientifici robusti e inoppugnabili”.

Via: Wired.it

Credits immagine: Kristine Wook on Unsplash