Terra bruciata, terra radioattiva?

Un coltello arroventato che entra nel burro. E’ questa la metafora usata dai militari americani per descrivere l’effetto delle bombe all’uranio impoverito utilizzate in questi giorni dalla Nato nel suo intervento in Yugoslavia. Si tratta del più pesante dei metalli, due volte e mezzo più dell’acciaio e 1,7 volte più del piombo, e conferisce ai proiettili una capacità di penetrazione altissima. Armi formidabili, dunque, capaci di perforare un carro armato o un bunker di cemento armato e di fare, letteralmente, terra bruciata intorno a loro. Quando esplodono producono un calore fortissimo, sino a 5 mila gradi, che vaporizza o fonde qualsiasi cosa all’interno. Compreso lo stesso uranio di cui è costruito il proiettile, che si trasforma in un aerosol altamente tossico.

Le autorità militari considerano questo l’unico sgradevole effetto collaterale dell’uso dei proiettili all’uranio impoverito. Che sarebbe sì radioattivo, ma in un modo del tutto insignificante. L’impiego di queste armi, assicurano, non ha nessuna conseguenza sull’ambiente né sulla salute di chi, si spera presto, tornerà a vivere sulle terre ora bombardate. Però, molti veterani della guerra del Golfo, dove queste armi sono state usate per la prima volta, non la pensano così. E nemmeno alcuni studiosi che, insieme ad alcune associazioni, si battono per la messa al bando di questo materiale, ritenendolo responsabile di varie patologie accusate dai reduci della guerra del Golfo, sia americani che iracheni, e dell’aumento di tumori e malformazioni genetiche rilevato tra le popolazioni esposte ai bombardamenti.

Anche se per spiegare la cosiddetta sindrome del Golfo sono state avanzate diverse ipotesi – esposizione ad armi chimiche e persino quella di un vaccino che avrebbe dovuto difendere i soldati proprio da questo pericolo – sull’uranio grava l’ombra del sospetto. L’uranio impoverito è ciò che resta dopo il processo di estrazione del prezioso isotopo uranio-235, che costituisce appena lo 0,7 per cento dell’uranio naturale e che viene utilizzato nei reattori e nelle bombe nucleari. Dunque è costituito in massima parte da uranio-238, tuttavia conserva il 60 per cento della radioattività naturale, che oltretutto dura molto a lungo, visto che il tempo di dimezzamento dell’uranio-238 è di 4 miliardi e mezzo di anni.

L’aerosol prodotto nell’esplosione delle granate dunque è anche radioattivo, pur se a livelli molto bassi: si tratta soprattutto di raggi alfa, in quantità che, secondo fonti ufficiali, sarebbero inferiori a quelle dell’uranio naturale. Sugli effetti di queste radiazioni ionizzanti sull’organismo umano, però, il dibattito nella comunità scientifica è ancora aperto. Si sa che le particelle alfa, dannosissime a livello cellulare, non sono in grado di attraversare spessori sottili come quelli di una stoffa e la stessa pelle. Ma è anche vero che se inalate o ingerite vengono facilmente assimilate dall’organismo, che le trattiene anche per anni. Secondo dati del Dipartimento della difesa statunitense, sono state ritrovate nelle urine di reduci anche a otto anni dalla fine della guerra del Golfo.

Per l’epidemiologa canadese Rosalie Bertell, fondatrice dell’ International Institute of Concern for Public Health e tra gli autori di Metal of Dishonor – un volume che raccoglie una gran mole di dati sulle conseguenze sanitarie dell’impiego di missili all’uranio nel corso della Guerra del Golfo – non ci sarebbero dubbi sugli effetti devastanti di queste radiazioni. Secondo la Bertell, che ha diretto le inchieste internazionali sulle conseguenze sanitarie del disastro chimico di Bophal e di quello nucleare di Chernobyl, una volta inalate, le particelle alfa possono rimanere per anni nei polmoni, causando enfisema o fibrosi. Con il tempo, poi, possono migrare nel sangue, danneggiando il sistema immunitario, o accumularsi negli organi, nelle ossa e nei tessuti, danneggiandoli gravemente. Tuttavia, “la Bertell rappresenta l’ala radicale, la più estremista tra gli studiosi che si occupano di questo problema”, spiega Fabrizio Battistelli dell’Archivio Disarmo, un centro studi indipendente sui temi della pace e della sicurezza, “il che non vuol dire le sue affermazioni non possano contenere elementi di verità. Io sono piuttosto prudente, ma sicuramente anche queste radiazioni, pur leggere, bene non fanno”, conclude lo studioso.

Per quanto rifiutino di riconoscere qualsiasi nesso tra l’impiego di proiettili all’uranio e i disturbi accusati da molti veterani della guerra del Golfo, le autorità militari americane conoscono bene i rischi connessi all’uso di queste armi. Lo provano diversi rapporti, stilati anche prima del ‘91, che sottolineano la necessità di prendere particolari precauzioni per chi maneggia questi ordigni o si trova coinvolto in un incidente. In uno studio pubblicato diversi mesi prima dell’intervento in Iraq, per esempio, si segnalava che “l’esposizione all’aerosol sul campo di battaglia può avere significative conseguenze radiologiche e tossicologiche”. Ma oltre alle ragioni tecniche, ci sono altri motivi dietro all’uso di questo materiale. “La vera ragione del suo impiego nella produzione di munizioni è meramente economica”, spiega Battistelli. “L’uranio impoverito è una vera manna per i produttori di armi. Si tratta di un materiale di scarto del processo di estrazione dell’uranio fissile, quello utilizzato per le bombe e le centrali nucleari, che viene ceduto a costo zero”.

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