Test genetici, maneggiare con cura

Utilizzare eticamente i test genetici per evitare ogni discriminazione o strumentalizzazione dei risultati ottenuti. E’ questa la filosofia con cui il Comitato nazionale di bioetica ha presentato a Roma mercoledì 19 gennaio il documento “Orientamenti bioetici per i test genetici”. Sintesi di un più ampio testo di prossima pubblicazione, il documento fa il punto sull’importanza sociale dei test genetici, un fenomeno medico che non può essere più ignorato. A dimostrarlo ci sono i dati della Società italiana di genetica umana (http://sigu.uniroma2.it/sigu/index.htm) relativi agli anni 1996 e 1997: le diagnosi molecolari sono cresciute complessivamente in un anno del 100 per cento, passando da 24.255 a 48.458. Maggiore è stata la crescita delle diagnosi postnatali (105,3 per cento) rispetto a quelle prenatali, aumentate comunque del 30 per cento. A produrle sono stati i 74 laboratori di ricerca diagnostica attivi sul territorio nazionale: più presenti al nord e al centro della penisola (50), più rari al sud e nelle isole (24).

Un test genetico è un’analisi – a volte banale quanto un prelievo di sangue, altre volte più complessa – che fotografa il nostro Dna. Questa macromolecola non è soltanto il codice di identificazione che ci distingue da ogni altro essere umano, ma contiene numerose informazioni sulla nostra salute: dalla predisposizione verso una malattia alla previsione di insorgenza di malattie genetiche, fino alla possibilità di accertare la paternità o di scoprire di essere portatore sano di alcune patologie. Per questo i test genetici rappresentano uno strumento da utilizzare con estrema attenzione. Cautela giustificata, fra le altre cose, “poiché l’indicazione del rischio di contrarre una patologia non significa certezza di ammalarsi e spesso il risultato del test può essere confermato solo dall’insorgere della malattia”, come recita il documento stesso. E ancora: “i dati emersi dal test possono influenzare, per esempio, le future decisioni di una coppia, e l’individuo non malato ma classificato a rischio a seguito di un test genetico, può diventare vittima di atti discriminatori”. Insomma, ci vuole più attenzione alla persona, per “evitare”, come ha sottolineato il presidente del Comitato di Bioetica Giovanni Berlinguer, “che si diffonda un uso discriminatorio della genetica e si creino cortocircuiti culturali in grado di menomare i diritti umani e il valore della responsabilità personale e collettiva”.

“Il progressivo aumento dei centri di diagnosi soprattutto privati”, ha dichiarato Alberto Piazza, bioetico, membro del Comitato e coordinatore del progetto, “dimostra il sempre più frequente ricorso ai test genetici. A questo però – aggiunge – non corrisponde un dato analogo sui consulenti genetici, specialisti della comunicazione, operatori specializzati in grado di portare i pazienti alla piena e serena comprensione dei problemi e permettere scelte libere e responsabili a chi scopra una o più particolarità nel proprio corredo genetico”. Se è vero che l’aumento delle diagnosi ha significato individuare un maggior numero di casi delle malattie più diffuse, come la talassemia o la fibrosi cistica, “bisogna verificare che a questa maggiore richiesta corrisponda un aumento del benessere fisico e psichico della popolazione”, prosegue Piazza.

Su un totale di 354 malattie diagnosticate sempre nel periodo 1996-97 in 280 laboratori Europei, ben 142 sono state individuate in Italia. Molti italiani hanno probabilmente saputo di avere una malattia genetica, o di essere predisposti ad ammalarsi: come affrontare una notizia simile? Chi deve aiutare queste persone? Con quali strumenti e capacità? A queste domande per ora non c’è risposta. Per questo il Comitato nazionale di bioetica propone di ampliare la riflessione su questi temi, per giungere alla compilazione di leggi valide, capaci di cogliere sia gli aspetti scientifici sia quelli umani ed etici del problema-diagnosi.

In proposito, uno dei punti su cui il Comitato ha puntato l’indice è stato il cosiddetto “diritto di non sapere”: un diritto da promuovere assieme a quello “di sapere”, per far sì che gli sviluppi della diagnosi molecolare portino effettivamente maggiore benessere alla popolazione. E’ il caso posto dalla diagnosi di un male incurabile: la conoscenza dei risultati porterebbe il paziente soltanto a “un’anticipazione delle sofferenze, senza concreti vantaggi in termini terapeutici”. Ancora più attenzione va posta verso i minori, per i quali un test genetico è giustificato “solo se implica un beneficio medico certo e tempestivo”. Ma non basta. Va assicurata anche la tutela della riservatezza. Rimane ancora irrisolto, infatti, il problema del trattamento dei dati genetici in caso di un procedimento giudiziario, per i problemi del lavoro o nel caso di stipula di una polizza assicurativa. L’unica legge italiana cui riferirsi è la celebre 675/1996 sulla privacy. Nel caso delle assicurazioni il Comitato ricorda lo stretto legame delle polizze sanitarie con gli articoli 32 (tutela della salute) e 38 (assistenza sociale) della Costituzione, e rivolge per ora un esplicito invito a non “prendere in considerazione le informazioni genetiche”. Per tutti gli altri casi, in assenza di leggi ad hoc sull’utilizzo dei dati sensibili, il Comitato rimanda all’autorizzazione del Garante per la privacy. Perché dietro ogni decisione su un essere umano sia sempre in primo piano il rispetto della persona.

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