Troppo poveri per l’industria

    La medicina ha l’indubbio merito di aver innalzato il livello generale di salute nel mondo, ma restano alcune realtà, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove non è stato ancora conquistato il diritto alla salute. Le multinazionali farmaceutiche investono miliardi per sviluppare farmaci contro l’obesità o l’impotenza, ma la ricerca sulle malattie curabili che continuano a mietere vittime nei paesi più poveri è quasi cessata. La malaria e la tubercolosi, per esempio, che da sole uccidono circa cinque milioni di persone ogni anno, non attirano nessun tipo di finanziamento. In pratica, il mercato farmaceutico è regolato in modo tale che la maggior parte dell’umanità resta esclusa dalla possibilità di accedere a nuovi farmaci e vaccini. E così la richiesta di nuove medicine in molti paesi è troppo spesso disattesa. Contro la logica del “chi non può pagare muore”, Medici Senza Frontiere ha lanciato una campagna per rendere possibile nei paesi più poveri l’importazione a medio costo dei farmaci essenziali e l’accesso ad alcune cure specifiche. L’iniziativa è ora approdata in Italia per chiedere al nostro paese, che per i prossimi tre anni avrà un ruolo determinante nell’Oms, un impegno preciso. Sapere ne ha parlato con Alessandra Redondi, responsabile della campagna italiana.

    Dottoressa Redondi, quali sono le principali cause di mortalità nei paesi in cui siete impegnati?

    Noi operiamo in 80 paesi, la maggior parte dei quali in via di sviluppo. Paesi messi in ginocchio da patologie soprattutto infettive, che sono la maggior causa di mortalità a livello mondiale: malaria, infezioni respiratorie, tubercolosi, AIDS e morbillo. L’iniziativa di MSF nasce dalla constatazione che i farmaci esistenti o non sono disponibili perché troppo costosi o non vengono più prodotti. Ma anche dal fatto che non vengono ricercati e sviluppati nuovi farmaci alternativi a quelli attualmente disponibili, che ormai sono diventati inefficaci a causa dell’insorgenza e diffusione di microrganismi resistenti.

    Questa situazione è determinata dal sistema dei brevetti protettivi, che conferisce alle case farmaceutiche il monopolio sui farmaci?

    Assolutamente sì. Anche i farmaci rientrano nel campo di azione dei TRIPS (Trade Related Aspects of Intellettual Properties), gli aspetti della proprietà intellettuale collegati al commercio, che sono regolati dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Questa tutela una vasta gamma di brevetti, dal copyright a tutto ciò che è frutto della mente umana, e dunque anche i farmaci. I TRIPS, entrati in vigore dal 1994, coprono il farmaco sia dal punto di vista del principio attivo, cioè della molecola, sia del processo di produzione. Ma questo significa bloccare a vari livelli la possibilità di sviluppare e produrre una medicina: da un lato non si tiene segreta la struttura della molecola base del farmaco, dall’altra si vieta di produrla nel caso in cui venga identificata. Una volta, infatti, alcuni paesi usavano quella che si chiama “ingegneria inversa”, per cui dal prodotto finito, dopo averlo analizzato, veniva isolata la molecola principale e ricreato un procedimento di produzione lievemente diverso ma che permetteva di averla disponibile a prezzi più bassi. Ora, invece, i TRIPS permettono di brevettare tutto il procedimento, coprendo una molecola per 20 anni. Queste regole sono state imposte a tutti i membri del WTO, anche se si distinguono vari casi – i paesi industrializzati, quelli a medio reddito, comunque in fase di sviluppo, e quelli a basso reddito estremamente poveri – e si indicano tempi di applicazione differenti, cioè entro il 2000, il 2004 e il 2006.

    Come può il monopolio farmaceutico condizionare la salute delle popolazioni più povere?

    E’ proprio qui il punto chiave. Se la casa farmaceutica che detiene il brevetto di un farmaco ne ha anche il monopolio, in termini di commercializzazione e di prezzo, è chiaro che le medicine disponibili, ad esempio gli antiretrovirali, avranno costi esorbitanti per chi le deve acquistare. Anche quando vengono fornite a prezzi ridotti – come è avvenuto in Sud Africa, o in Tailandia, dove alcune case farmaceutiche hanno applicato sconti fino all’85 % sul prezzo normale – questi superano comunque le possibilità economiche dei paesi interessati, che si vedono costretti a tagliare tutte le altre spese sanitarie. In alcuni casi poi, pur facendo questi tagli, non si è grado di rispondere al fabbisogno della popolazione. In Malawi per esempio, una realtà poco nota all’opinione pubblica, su 11 milioni di abitanti più di un milione e mezzo – circa il 14% della popolazione – sono sieropositivi. Anche qui il costo totale per il trattamento con antiretrovirali sarebbe di due volte superiore alla possibilità di spesa del paese.

    Di alcuni farmaci è stata addirittura sospesa la produzione perché considerati poco redditizi. Come si è ovviato a questo problema?

    Sono molti i farmaci indispensabili ma non più disponibili. Basti pensare all’efluornitina per la cura della malattia del sonno, di cui è stata fermata la produzione. Tra l’altro, è difficile stabilire il bisogno di cure farmacologiche: non sempre c’è corrispondenza tra i casi notificati e quelli reali. In molti paesi non esiste un sistema di controllo epidemiologico in grado di rilevare tutti i casi esistenti. In base ai nostri dati, solo per la malattia del sonno ogni anno muoiono 150 mila persone. In questo senso, è impressionante pensare che venga sospesa la produzione del farmaco per una malattia che, se non trattata, è letale nel cento per cento dei casi.

    Non solo: anche la medicina tuttora disponibile, un derivato dell’arsenico, il melarsotrol – che comunque determina in alcune aree il 5% di mortalità per effetti collaterali e il 25% di resistenza – rischia di andare fuori produzione. E così anche quei pochi farmaci che vengono utilizzati per curare un esiguo numero di malati (dal 2 al 4% del totale, a seconda dei paesi), determinano nel 30% dei casi una sentenza di morte, un po’ per gli effetti collaterali, un po’ per la possibilità che si tratti di infezioni da ceppi resistenti. C’è anche il caso del cloranfenicololeoso, utilizzato per il trattamento della meningite epidemica, un problema sanitario gravissimo soprattutto nei paesi dell’area sahariana centrale. In questa zona, chiamata infatti la “cintura della meningite”, quando scoppiano le epidemie c’è una mortalità elevatissima e una diffusione molto rapida. Ma poiché anche questo farmaco è poco redditizio per le case produttrici, è a rischio di sospensione. Attualmente alcune piccole case farmaceutiche, sotto pressione di MSF e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si sono impegnate a continuarne la produzione.

    Anche nell’ex unione sovietica ci sono problemi sanitari di questo tipo?

    Certo. Primo fra tutti la diffusione nelle prigioni siberiane della tubercolosi multiresistente. Si tratta qui di una questione molto complessa: da una parte esiste il problema dello sviluppo di nuovi farmaci, dall’altra quello del protocollo da utilizzare. Attualmente si ricorre ai DOS, protocolli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che prevedono un trattamento di circa otto mesi. Ovviamente, in alcune aree è difficile assicurare il controllo di un paziente per tutto questo tempo. Ciò significa che un detenuto che per due mesi prende un farmaco e poi torna libero, e quindi sospende la cura, contribuisce all’insorgenza di resistenze al farmaco, non adeguatamente somministrato. Il problema è quindi sviluppare nuove cure più praticabili e, dall’altra parte, utilizzabili, in caso di resistenze, a costi accessibili. I farmaci oggi di seconda linea, disponibili in caso di forme multiresistenti, sono troppo costosi e prevedono un trattamento molto lungo.

    La mancate risposta ai bisogni di questi paesi può avere delle conseguenze sociali, oltre che sanitarie?

    Se si pensa all’AIDS, le conseguenze sociali sono impressionanti. Questo virus, infatti, colpisce una fascia di età particolare, di cui fanno parte i bambini ma soprattutto le persone in età fertile, quindi quella parte della popolazione in grado di assicurare la riproduzione e la continuità di un gruppo. Anche dal punto di vista della forza lavoro. Non dare una risposta a questi problemi significa mettere in ginocchio un paese. Basti pensare che su 33 milioni e 600 mila sieropositivi nel mondo, il 95% vive nei paesi in via di sviluppo e il 70 per cento nei paesi sub-sahariani, che non sono in grado di affrontare le spese per i trattamenti. Proprio per dar voce a questi paesi è nata la campagna di MSF.

    Quando ha avuto inizio questa campagna?

    E’ partita a livello internazionale un paio di anni fa, prima in Francia e in altri paesi, poi in Svizzera. Quest’anno è approdata in Italia. Sono diversi anni che MSF si occupa dell’accesso ai farmaci all’interno della problematica del diritto alla salute. Ma non è l’unico problema. C’è anche quello delle infrastrutture, della formazione del personale, dell’impegno dei governi locali e di quelli dei paesi più ricchi, anche della responsabilità della comunità internazionale. In questa campagna, comunque, non siamo da soli. Lavoriamo con altre organizzazioni a livello internazionale, tra cui soprattutto (AFI) e Consumer Project on Technology. La prima è un’agenzia che racchiude tutta una serie di associazioni, divisa anche in regioni, tra cui una sezione europea che è nostra partner. La seconda è una associazione in difesa del consumatore. In passato abbiamo fatto campagne su altri temi ma è la prima volta che ci si impegna a livello internazionale in modo così forte, in una iniziativa che, partendo da un bisogno medico quale quello dei farmaci e del diritto alla salute, vada a toccare problematiche così complesse. Ci sono state campagne per l’accesso all’acqua, per gli immigrati. E devo dire che risposte ce ne sono state tante, soprattutto da parte del pubblico, dei cittadini comuni. A livello governativo, però, non si può dire altrettanto. Ciò non toglie che si continui a lavorare attivamente, anche perché la sezione italiana ha solo sette anni di vita.

    Cosa vi aspettate dal Governo italiano?

    L’Italia ha molte carte da giocare. E’ importante che ci sia un’opinione pubblica attenta e sensibile a queste problematiche, soprattutto ora che viviamo in un villaggio globale. Abbiamo delle responsabilità a livello mondiale, visto che non è insignificante la nostra influenza su questi paesi. Il nostro obiettivo è quello di far compiere al Governo italiano delle scelte. In passato c’è stato qualche passo in questo senso: una delegazione di MSF ha partecipato a un convegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dove presente una delegazione italiana del Ministero della Sanità. Ma l’Italia da quest’anno gioca un ruolo più importante perché, oltre ad essere membro dell’OMS, per i prossimi tre anni sarà membro dell’Executive Board dell’organizzazione, cioè di quella sezione in cui vengono prese le risoluzioni e le decisioni. Mentre all’Assemblea generale partecipano tutti i paesi membri, di questa sezione fanno parte solo 31 paesi. Contiamo molto sul ruolo che può giocare l’Italia, visto che l’OMS rappresenta l’organismo sanitario di riferimento a livello mondiale, che deve essere partecipe di tutto ciò che riguarda la salute. Anche delle scelte commerciali che hanno dei riflessi sulla salute delle persone. L’Italia, inoltre, fa parte del G8. Anche in questa sede si parlerà di diritto e accesso alla salute. Noi continuiamo con la nostra attività di incontro, di dibattito, di informazione con i nostri rappresentanti, affinché possano essere presenti delle proposte che rispondano in modo appropriato ai bisogni sanitari a livello mondiale.

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