Dimenticate tutto quello che credevate di sapere sui poemi omerici. Ulisse non era greco, era nato e cresciuto tra i fiordi della Norvegia, Itaca è un’isola della Danimarca e Troia un pacifico villaggio finlandese. Questo e molto altro sostiene un libro di Felice Vinci, “Omero nel Baltico”, pubblicato la prima volta nel 1995 ma tornato recentemente di attualità grazie a una nuova edizione, uscita con tanto di presentazione di Rosa Calzecchi Onesti, una delle più illustri studiose italiane dei poemi omerici. L’autore, un ingegnere nucleare dell’Enea con una passione per gli studi omerici e la storia antica, parte da una constatazione: le descrizioni dei luoghi nell’Iliade e nell’Odissea presentano molte, incomprensibili incongruenze con l’effettiva geografia ellenica. Itaca, per esempio è descritta come l’isola più occidentale di un arcipelago che comprende Dulichio, Same e Zacinto. Ma nella realtà si trova a nord di Zacinto, a est di Cefalonia e a sud di Leucade. Il Peloponneso, che è un altopiano, è descritto in entrambi i poemi come una pianura. Quanto a Troia, l’Iliade la situa lungo l’Ellesponto, descritto come un mare sconfinato mentre la città individuata da Heinrich Schliemann nel 1884 si trova nello stretto dei Dardanelli. Insomma, qualcosa non torna. Prendendo le mosse da un fugace accenno in Plutarco, Vinci propone allora una tesi tanto bizzarra quanto suggestiva: i miti omerici apparterrebbero in realtà a popolazioni originarie della Scandinavia e farebbero riferimento a vicende svoltesi in quei luoghi durante l’età del bronzo, quando l’optimum climatico post-glaciale (un periodo di clima straordinariamente caldo seguito all’ultima glaciazione) rendeva quelle regioni molto più ospitali di quanto non siano ora. Nel corso dei secoli, a causa delle mutate condizioni climatiche, questi popoli si sarebbero spostati verso il Mediterraneo dove avrebbero“riambientato” i racconti mitici ed epici.Un’occhiata alle carte geografiche del Nord Europa, secondo Vinci, non può che confermare in modo sorprendente queste tesi. Itaca sarebbe in realtà l’isola di Lyø, parte di un arcipelago che corrisponde perfettamente alle descrizioni di Omero. Il Peloponneso corrisponderebbe all’isola danese di Sjælland. Troia, invece, non avrebbe nemmeno cambiato nome: si tratterebbe di Toija, un villaggio situato a nord di Helsinki, circondato da altre località la cui toponomastica mostra effettivamente straordinarie assonanze con quella dei luoghi omerici. E numerosi altri dettagli, climatici e ambientali, nei due poemi si adatterebbero molto meglio a un contesto scandinavo che non a quello greco.La tesi è innegabilmente intrigante. Ha suscitato molta curiosità e anche molti apprezzamenti, qualcuno per la verità un po’ ambiguo. L’idea di un’origine nordica delle civiltà mediterranee, e quindi della cultura europea, non può che stuzzicare gli ambienti ideologici legati all’esoterismo e a una certa cultura di estrema destra. Va detto però che l’analisi di Vinci è molto rigorosa, ricca di riscontri, intellettualmente onesta, e termina con un invito agli archeologi perché procedano a confermare o meno le tesi: “La parola, “galileianamente”, passi alla vanga”, scrive Vinci. “L’autore ha indubbiamente una conoscenza molto profonda in campo filologico e anche una discreta cultura archeologica”, spiega Renato Peroni, docente all’Università di Roma e tra i maggiori esperti italiani di preistoria e protostoria. “Sarebbe un errore considerarlo con sufficienza solo perché non è uno specialista. Il problema è che conosce e cita solo l’archeologia di 50 anni fa. Gli studi degli ultimi decenni ci permettono invece di descrivere il contesto europeo nell’età del bronzo in modo completamente incompatibile con le sue tesi”.Prima di tutto, afferma Peroni, la fine dell’optimum climatico non è da collocare quando sostiene Vinci, cioè nel 2000 a.C. “Da circa 60 anni sappiamo che è avvenuta intorno al 1200 a.C, contemporaneamente quindi alla distruzione di Troia: è certo che a quella data la civiltà micenea era già fiorente, mentre seguendo il ragionamento di Vinci i suoi fondatori avrebbero dovuto trovarsi ancora in Scandinavia”. Non regge poi, secondo Peroni, l’idea di una civiltà micenea non autoctona della Grecia, fondata da popolazioni migrate dal nord intorno al XVI secolo a. C. “Prima della civiltà micenea, in quella regione, ci sono state altre culture, con le quali i reperti micenei mostrano una continuità praticamente totale”. Il problema più grosso è come queste popolazioni provenienti dal Nord avrebbero raggiunto il Mediterraneo: Vinci parla di “grandi navigatori”, e per sostenere la sua tesi sottolinea le attinenze che si trovano fra reperti provenienti dalla Scandinavia, dalla Russia meridionale, dall’odierna regione ceca, dal Wessex (in Gran Bretagna) e naturalmente dalla Grecia. “Delle due l’una”, prosegue Peroni, “o erano grandi navigatori o grandi camminatori. Se erano grandi navigatori che ci facevano nella Russia meridionale o nell’Est Europeo? Se erano grandi camminatori e arrivarono in Grecia passando dall’entroterra non dovremmo trovarli nel Wessex”. È innegabile però che quelle somiglianze tra culture molto distanti c’erano. Tanto da far scrivere a Vinci che “la riscoperta di Omero in chiave nordica potrebbe favorire un diverso approccio – in chiave non più soltanto economica ma anche e soprattutto storico-culturale – all’idea di unità dell’Europa e, forse, contribuire alla nascita di un nuovo umanesimo nella cultura dell’Occidente”. “È un’idea molto bella, ma noi archeologi lo sappiamo da tempo”, conclude Peroni. “Nell’età del bronzo esisteva effettivamente questa unità europea ante litteram. Ma non perché un solo popolo si fosse diffuso partendo dalla Scandinavia: l’unità c’era perché i diversi popoli comunicavano sulle vie commerciali”.