Un carico di sospetti

Fungicidi, fenolo, voronate ed etilacetato. Sono queste alcune delle sostanze chimiche pericolose per l’ambiente marino che, secondo fonti del Dipartimento per l’Ambiente e il Turismo del governo sudafricano, potrebbero trovarsi sulla Jolly Rubino, il cargo italiano arenatosi, lo scorso 11 settembre, a poche miglia dalle coste sudafricane. A più di dieci giorni dall’incidente, l’incendio sviluppatosi a bordo impedisce ancora di compiere un sopralluogo per verificare il carico e sapere quali e quanti fusti siano caduti in mare. A rischio è la Riserva Marina di Santa Lucia ma anche gli abitanti del luogo, che potrebbero imbattersi accidentalmente in uno dei fusti caduti in acqua. L’esito del sopralluogo è atteso con ansia anche in Italia: la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha accolto la richiesta di Legambiente e Wwf di verificare il rispetto delle normative nazionali e internazionali sul trasporto di sostanze pericolose, le cause e le conseguenze dell’incidente sull’ecosistema marino. La Jolly Rubino non è nuova infatti alle cronache e ricorre in una serie di inchieste sul traffico illecito di rifiuti e nelle relazioni della stessa Commissione. La prima volta che se ne sentì parlare era il 4 settembre del 1987 quando, in transito lungo le rotte del Golfo Persico, fu assalita a colpi di bazooka da imbarcazioni iraniane. Ne seguì un’interrogazione parlamentare in cui si ipotizzava che il cargo trasportasse, non pomodori secondo quanto riportato ufficialmente, bensì armi per l’Iraq. Un’ipotesi, questa, subito smentita dalla compagnia proprietaria, a cui seguì quella avanzata in un’altra interpellanza di alcuni deputati del gruppo verde, secondo la quale la nave sarebbe stata utilizzata per un traffico incrociato di armi e rifiuti tossici verso la Nigeria. Nel 1994 poi la Jolly Rubino, giunta dal Libano, fu sequestrata nel porto di La Spezia con un carico di rifiuti nucleari radioattivi provenienti, si pensò, da una centrale atomica del blocco ex sovietico.Il sospetto è dunque che il cargo italiano sia una delle cosiddette “navi dei veleni” che negli anni ottanta e novanta avrebbero trasportato armi per rifornire i “signori della guerra” dell’Africa, del Sud America e dell’Est Europeo e pagata in natura con aree dove scaricare rifiuti tossici. Navi che, a fine carriera, sarebbero state fatte intenzionalmente colare a picco. Così sarebbe stato per la Rigel, affondata misteriosamente il 21 settembre del 1987 davanti alle coste campane, e così per la Koraline che, nell’ottobre del 1995, dopo un breve scalo nel porto di La Spezia ripartì con 285 container per il suo ultimo viaggio: il 7 novembre affondò fra Ustica e Trapani per una falla. Nei container venne trovato uranio 238. Stando al rapporto della Direzione Investigativa Antimafia dello scorso anno, di queste “navi dei veleni” nei fondali del Mediterraneo ce ne sarebbero 52. “Purtroppo molte delle “navi fantasma” sfuggono ai controlli e spesso l’impeccabile formalismo cartaceo, ovviamente falso, riesce a depistare gli organismi di controllo”, ha dichiarato a Galileo Paolo Russo, presidente della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. Secondo le stime della Commissione, 20 milioni di tonnellate di spazzatura ogni anno spariscono nel nulla. Il fatto poi che non ne risulti neanche la produzione, lascia pensare a forme di smaltimento irregolari. E che i rifiuti finiscano in mare non è meno preoccupante: “Alcune sostanze chimiche”, ricorda Nunzio Cirino, responsabile del settore ambiente e legalità di Legambiente, “presentano un elevato tasso di tossicità, persistenza e bioaccumulo in mare e sono perciò capaci di pregiudicare per decenni l’habitat”. Ma anche sulla terraferma le insidie non mancano: il Comando dei Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente ha svelato che diverse aziende agricole in crisi mettono a disposizione i loro terreni come discariche. Ecco quindi che coltivazioni di foraggio per animali, di ortaggi e frutteti vengono ‘concimati’ con sostanze pericolose”. Un business, questo dello smaltimento illegale dei rifiuti, che fa prosperare le ecomafie. Anche se nell’aprile dal 2001 è stato istituito il reato di traffico illecito di rifiuti, spiega Cirino “resta il fatto grave che il nostro codice penale non prevede alcun capo d’accusa contro i delitti ambientali, in base a cui si possano effettuare rogatorie internazionali e intercettazioni telefoniche”. In pratica “a chi commette un reato di delitto ambientale”, spiega Russo, “viene comminata una sanzione economica che oltre a non costituire il giusto deterrente non è commisurata ai devastanti danni prodotti. I colpevoli, invece, dovrebbero essere messi sullo stesso piano dei criminali più incalliti. Per questo uno dei principali obiettivi della Commissione è quello di introdurre la nuova definizione del reato di delitto ambientale”.E se è vero che in Italia le strutture per lo smaltimento dei rifiuti non sono molte, è altrettanto vero che “gli impianti esistenti sono sottoutilizzati, a testimonianza del fatto”, secondo l’esperto di Legambiente, “che il mercato illegale la fa da padrone”. Con tali premesse, quali le possibili soluzioni? Un inasprimento delle pene e una maggiore accuratezza da parte degli industriali, secondo Cirino, ma anche, come suggerisce Russo, “un sistema preventivo capace di dissuadere e scongiurare sul nascere l’intervento delle ecomafie”. Tra le soluzioni potrebbe esserci l’istituzione di un’Authority che vigili sull’intero ciclo dei rifiuti, gestori e intermediari compresi, e la creazione di una collaborazione tra i vari Paesi”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here