Un grande debito della cultura italiana

L’occasione rituale del centenario della nascita offre, con il simbolico pretesto della cifra tonda, una magnifica opportunità per riportare alla realtà di oggi la storia di Enrico Fermi, uno dei grandi della cultura mondiale di tutti i tempi. Questo è particolarmente importante per il nostro paese che, della cultura scientifica, è solo marginalmente consapevole. Enrico Fermi, come tutti sanno, era un fisico, uno studioso della natura con caratteristiche che solo negli ultimi tre o quattro secoli hanno trovato il dovuto apprezzamento e collocazione nelle comunità intellettuali, emergendo con non più arrestabile vigore in quella frazione raziocinante dell’umanità che – ahimè – è ancora oggi minoritaria. Più che mai nel nostro paese, aperto da sempre anche alle contorsioni dell’etica, dell’estetica, della politica e della metafisica, alle passioni della letteratura, ma non molto disponibile al rigore della ragione, della logica e del metodo sperimentale. Galilei è, non dimentichiamolo, acquisizione recente: sono meno di 400 anni, un’inezia nella vita della civiltà, che ha insegnato al mondo come è fatto il mondo. E tuttavia è forse più conosciuto per il suo conflitto con la Chiesa cattolica che per le sue idee.

A cento anni dalla sua nascita (nacque il 29 settembre 1901, morì il 28 novembre 1954), è stato dato alla comunità dei fisici italiani il compito di mostrare ai propri connazionali e di ricordare al mondo chi era Enrico Fermi e che cosa c’era di così straordinario nella sua figura. Ma questa non è impresa banale. Vorrei qui permettermi una semplificazione che potrebbe avere la virtù di fare capire in quali pieghe del pensiero umano Fermi si muovesse. La sua specialità si potrebbe chiamare “consequenzialità logica”: era particolarmente dotato nell’indurre le conseguenze dei fatti, nel seguire i ragionamenti del tipo “se questo è ciò che si osserva… allora deve accadere quest’altro”. Più tecnicamente, si direbbe oggi che era un eccezionale “fenomenologo”. Ancora molto giovane, negli anni Venti, dopo alcuni significativi lavori di fisica classica e relativistica, concluse che se Pauli aveva ragione a dedurre dalla struttura dei livelli elettronici degli atomi che in ciascuno stato dinamico permesso dalla quantizzazione non potesse esserci più di un elettrone (“principio di Pauli”), allora gli elettroni di un gas come quello che rappresenta le cariche mobili in un metallo non potevano obbedire alla distribuzione statistica classica di Maxwell-Boltzmann. E sulla stessa base, arrivò poi a formulare un modello di struttura atomica, che prenderà il nome di modello statistico dell’atomo di Thomas e Fermi, grazie al quale diviene facilmente comprensibile che le dimensioni di tutti gli atomi della tabella periodica degli elementi non cambiano apprezzabilmente dall’idrogeno all’uranio.

All’inizio degli anni Trenta, riformulerà a suo modo l’elettrodinamica quantistica relativistica, cioè la teoria completa della radiazione elettromagnetica e delle cariche che la producono, ottenendo grandi riconoscimenti dai fisici teorici di tutto il mondo, sino alla consuetudine di chiamare “regola d’oro di Fermi” la formula di calcolo della vita media di stati instabili di sistemi quantistici. Di lì a poco, affronterà di peso la teoria della radioattività beta, sostenendo rivoluzionariamente che le particelle emesse dal nucleo radioattivo non preesistono in quel nucleo, come a quel tempo si credeva, ma vengono create all’atto della disintegrazione: la costante che governa il processo nella sua teoria si chiamerà per sempre “costante di Fermi”. Quando James Chadwick scopre il neutrone (nel 1932), Fermi è pronto a prevedere che questa scoperta offre la possibilità di produrre un grande numero di elementi radioattivi artificiali con una notevole varietà di impieghi (si pensi agli usi in medicina, per fare un esempio). Capisce – e questa è considerata la sua più grande scoperta – che i neutroni rallentati per urto da elementi leggeri sono più efficaci dei neutroni veloci nel produrre i nuovi isotopi. È da qui che nasceranno i reattori nucleari, il primo dei quali realizzato a Chicago e funzionante già nel dicembre 1942 a opera dello stesso Fermi, “il navigatore italiano…”, come sarà chiamato dagli americani presso cui ha trovato rifugio nel 1938 (dopo avere ricevuto il Nobel) con tutti gli onori. Da lì nascerà, con il contributo determinante di Fermi, nel clima disperato prodotto dalla barbarie nazista, anche la bomba a fissione, a Los Alamos.

Finita la guerra, Fermi sarà nuovamente attratto dalla fisica delle particelle elementari, suggerirà un meccanismo di accelerazione dei raggi cosmici, tornerà – con un lavoro di cui non farà a tempo a vedere la pubblicazione – alla sua passione per la statistica fisica puntando profeticamente sull’impiego dei grossi calcolatori elettronici, allora neonati, allo scopo di simulare il comportamento di sistemi complessi difficilmente abbordabili con il calcolo. Come meravigliarsi allora se il suo nome è uno dei più frequenti in cui ci si imbatte in ogni trattato di fisica moderna e se un’intera famiglia di particelle elementari è qualificata come quella dei “fermioni”?

L’Italia non è consapevolmente felice di avere avuto, a dispetto di tradizioni assai diverse, un esponente così illustre nel mondo. Il dibattito sordo e nemmeno tanto sotterraneo tra le “due culture” era aspro e si può forse rimproverare ai fisici della scuola di via Panisperna di averlo evitato considerandolo una perdita di tempo: l’idealismo imperante non era certo nelle loro corde e non nascondevano il disinteresse perfino sprezzante verso la cultura dominante e le polemiche che, con più generosa ingenuità, Federigo Enriques (un grande matematico) e i suoi amici accendevano, con scarsa soddisfazione, con Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ma non si può tacere e sottovalutare che i filosofi italiani (e non solo italiani, sebbene altrove non tutti e con minore protervia) abbiano negato il valore culturale della scienza senza avere un’idea di ciò di cui stavano parlando. La rivista “Scientia” che Enriques fondò all’inizio del ‘900 e che è uscita sino a pochi anni fa, nota in tutto il mondo, in Italia aveva ben pochi lettori. L’ignoranza scientifica, perciò, ha da noi una sua storia assai precisa: le iniziative che, grazie a una opportuna decisione di governo, sono state intraprese per i prossimi mesi, sono una doverosa correzione di rotta, indispensabile per non perdere le espressioni più alte del vivere civile del nostro tempo.

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