Una Babele teorica

Il concetto di dipendenza è centrale nella ricerca, nei diversi approcci esplicativi e nelle scelte politiche in tema di sostanze d’abuso. Ed è forse per questo motivo che solitamente lo si considera chiaro e inequivocabile. Al contrario, come per la gran parte dei termini ovvi, uno sguardo solo meno superficiale rivela immediatamente la pluralità dei significati, la misura della vaghezza e delle contraddizioni di questo concetto, singolare commistione di elementi di carattere normativo, clinico e farmacologico. Le incongruenze e la confusione sono così radicali che si perpetuano sostanzialmente anche all’interno dei singoli modelli teorici di dipendenza, come quello medico, quello sociale, quello comportamentale. Da un lato, ci si chiede quindi come la nozione di dipendenza possa fondare i discorsi e le pratiche sulle droghe ovvero, conseguentemente, quale sia e se esista un senso di questi discorsi e una ratio per queste pratiche. Dall’altro, la natura fondante di tale pasticcio teorico rende chiare molte delle ragioni del fallimento dei programmi attuati per limitare o addirittura eliminare l’abuso e l’uso cronico di sostanze psicoattive.

In questo articolo tenteremo di portare alla luce gli aspetti controversi del concetto di dipendenza come malattia, prevalente oggi nel variegato dibattito sul tema.
Formulato per la prima volta nel 1793 da Benjamin Rush [1], padre della psichiatria statunitense, il modello della dipendenza come malattia è supportato dalle acquisizioni delle ricerche anatomiche, fisiologiche, neurofarmacologiche e genetiche che stanno progressivamente svelando le basi biologiche di questa condizione. Fondamentalmente, il modello spiega la compulsione alla ricerca e all’uso di sostanze psicoattive (considerati sintomi primari) come l’effetto di strutture e funzioni nervose rese patologiche da un uso prolungato della sostanza e su cui il soggetto non ha più controllo.

La dipendenza nella nosografia psichiatrica

Il punto di vista della psichiatria contemporanea sulla dipendenza è compendiato dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV) dell’American Psychiatric Association [2] e dall’International Classification of Disorders (ICD-10) dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità [3], gold standard della nosografia psichiatrica.
Il DSM-IV definisce la dipendenza come un pattern maladattattivo di uso di sostanze che porta a un deterioramento clinicamente significativo o angoscia, che si manifesta con tre (o più) delle situazioni seguenti che si verificano in ogni momento nello stesso periodo di 12 mesi:

1. Tolleranza, definita da una o dall’altro delle seguenti condizioni: a) necessità di un marcato aumento della quantità della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato; b) un effetto marcatamente diminuito con l’uso continuato della stessa quantità della sostanza.
2. Astinenza, come manifestata da uno o l’altro delle seguenti condizioni: a) la caratteristica sindrome d’astinenza per la sostanza definita per ciascuna specifica sostanza nel DSM-IV; b) la stessa (o molto simile) sostanza è presa per alleviare o evitare i sintomi dell’astinenza.
3. La sostanza è presa in quantità maggiori o per un periodo di tempo più lungo di quanto si intendesse.
4. C’è un desiderio persistente o tentativi infruttuosi di smettere o controllare l’uso della sostanza.
5. Una grande quantità di tempo è passato in attività necessarie a ottenere la sostanza (per esempio, visitare molti medici o guidare per lunghe distanze), usare la sostanza o recuperare dai suoi effetti.
6. Importanti attività sociali, occupazionali o ricreazionali vengono interrotte o ridotte a causa dell’uso della sostanza.
7. L’uso della sostanza è continuato nonostante la conoscenza di avere un persistente o ricorrente problema fisico o psicologico che è verosimilmente stato causato o esacerbato dalla sostanza.

I criteri per la dipendenza del DSM-IV ricalcano in larga parte quelli – precedentemente fissati – dell’ICD-10. Quest’ultimo, tuttavia, enfatizza come “caratteristica descrittiva centrale, […] il desiderio (spesso forte, talora soverchiante) di assumere la sostanza psicoattiva”, tanto che nell’ICD-10, “il senso di compulsione” al consumo rappresenta il primo criterio diagnostico della sindrome da dipendenza.
Entrambi i sistemi diagnostici non definiscono esplicitamente il concetto di addiction, un termine fondamentale nel dibattito sulla dipendenza e difficilmente traducibile in italiano. Questa lacuna nelle definizioni è forse all’origine dello scarso consenso su ciò che significhi realmente il termine “addiction” anche tra gli stessi psichiatri e neuroscienziati. Esso così viene impropriamente usato al posto di “dipendenza”, generando non poca confusione sia a livello teorico e della ricerca sia nella messa a punto e nella pratica degli interventi e dei trattamenti.
Il termine addiction indica uno stato comportamentale di abuso di sostanze caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell’impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l’approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione. Diversamente, per dipendenza si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l’insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi (per esempio, Stahl [4]). Sembra chiaro e molto semplice.

Aspetti controversi della classificazione

Pur senza citare espressamente i termini “addiction” e “compulsione”, i criteri diagnostici per la dipendenza dell’ICD-10 e del DSM-IV mettono al centro le condizioni da essi descritte: la perdita di controllo, l’irresistibile desiderio della sostanza. Nella moderna accezione, l’addiction è un elemento caratterizzato e qualificabile solo a livello soggettivo e comportamentale. Nei criteri diagnostici questo aspetto è elencato in un’inesplicata compresenza con criteri fisiopatologici della dipendenza: tolleranza e sindrome d’astinenza. Piani diversi, descritti senza indicare eventuali termini concettuali di collegamento e reciproca traduzione, come se appartenessero a due universi di fenomeni mutualmente irriducibili.

In maniera un po’ paradossale, la descrizione medica della dipendenza mette in subordine il livello fisiopatologico rispetto a una fumosa e imprecisabile dimensione comportamentale. Solo due criteri rimandano infatti al neuroadattamento, all’abuso cronico di una sostanza, mentre cinque sono relativi a vaghe condizioni soggettive e comportamentali. In questo senso, la diagnosi di dipendenza da una sostanza d’abuso può essere formulata anche in assenza di dipendenza farmacologica. Questa curiosa occorrenza è peraltro correlabile alla deriva del concetto di addiction provocata da alcune deprecabili frange della psichiatria contemporanea e dalle pressioni di mercato. Medicalizzare i comportamenti significa infatti anche (o soprattutto?) vendere cure. Il concetto di addiction ha subito un’inflazione stupefacente tanto da inglobare sostanzialmente l’intera categoria nosologica di dipendenza. Essa così oggi può reclutare al fianco dei tossicodipendenti i cosiddetti drogati del sesso, del gioco d’azzardo, degli acquisti, del lavoro, di Internet, della televisione, della forma fisica, del cibo.

Ma cerchiamo di analizzare più da vicino il significato della compulsione alla ricerca e all’uso della sostanza, caratteristica fondamentale della dipendenza secondo tutti gli standard diagnostici attuali e secondo la stessa tradizione che ha portato alla definizione della dipendenza come malattia.
L’ICD-10 equipara la compulsione al consumo a un “forte desiderio di assumere la sostanza”. Una definizione tutt’altro che scientifica o positiva. Quanto forte deve essere il desiderio per trasformarsi in compulsione? E in che modo deve misurarsi la sua forza? Attraverso ciò che riportano i soggetti o dall’osservazione del loro comportamento? E come inquadrare la non infrequente situazione di forte e persistente desiderio di assumere una sostanza che non dà luogo all’effettivo consumo?

Il DSM-IV non definisce esplicitamente il significato di compulsione all’assunzione di una sostanza, né elenca tale condizione tra i sette criteri diagnostici fissati per la dipendenza. Ciò costituisce quantomeno una stravaganza metodologica. Nella discussione generale sulla categoria diagnostica, infatti, il manuale dell’Ame-rican Psychiatric As-sociation indica la compulsione al consumo come elemento cruciale per la definizione della dipendenza.

Non si guadagna in coerenza e chiarezza anche se si cerca di capire cosa intenda per compulsione il DSM-IV consultando altri criteri diagnostici correlati. Il manuale definisce la compulsione come parte del disturbo ossessivo-compulsivo. La compulsione è così descritta: “Un comportamento ripetitivo (per esempio, lavarsi, mettere in ordine, controllare) o un atto mentale (per esempio, pregare, contare, ripetere parole in silenzio) il cui fine è prevenire o ridurre l’ansia o l’angoscia, non per portare piacere o gratificazione. Nella gran parte dei casi, la persona si sente costretta a porre in atto la compulsione per ridurre l’inquietudine che accompagna un’ossessione oppure prevenire eventi o situazioni temute […] Per definizione, la compulsione è allo stesso tempo eccessiva e non connessa in una maniera realistica a ciò che invece dovrebbe neutralizzare o prevenire”. Nella dipendenza, la ricerca e il consumo di sostanze possono senz’altro essere eccessive ma sono sicuramente – anzi oggettivamente – collegate alla riduzione dell’ansia, all’evitamento della tangibile e dolorosa sindrome d’astinenza, e associate a forte piacere e gratificazione.
A proposito della compulsione, l’ICD-10 enfatizza l’aspetto della ritualizzazione ossessiva, della stereotipia dei comportamenti, altre caratteristiche non certamente peculiari nelle azioni dei tossicodipendenti, in realtà – come dimostrato da numerosi studi – ampiamente modulate dalla sfera cognitiva e regolate da variabili di tipo ambientale, come la disponibilità e la reperibilità della sostanza, il suo costo, il suo status legale, il suo significato culturale, i valori etici a essa associati e così via. (Si vedano per esempio gli studi di Zinberg [5], Davies [6], Di Clementi e Prochaska, [7]; Elster [8]).

Prendiamo ora in considerazione la categoria del disturbo del controllo degli impulsi, altro quadro nosografico legato a tratti comportamentali in qualche modo riferibili alla compulsione. Secondo il DSM-IV, la caratteristica diagnostica fondamentale per questo disturbo è l’incapacità di resistere all’impulso, alla pulsione, alla tentazione di compiere un atto pericoloso per se stessi o per gli altri. Questa descrizione non chiarisce se l’incapacità di resistere all’impulso sia radicabile inabilità a far fronte a questo tipo di spinta emotiva e motivazionale o il risultato di una resa deliberata. Nemmeno suggerisce quale debba essere il grado di rischio perché un atto collegato a una pulsione possa considerarsi compulsivo piuttosto che razionalmente determinato. Del resto, la pericolosità di un atto per sé e per gli altri è una variabile dipendente dalle norme etiche e dai fattori ambientali. Le statistiche sulle cause di morte e sull’incidenza di un comportamento sulle aspettative di vita (per esempio BMA [9]) dimostrano, tra l’altro, che in proporzione i decessi per sport estremi o per tutti gli sport in generale, per gli incidenti stradali, per gli stessi incidenti domestici, per le intossicazioni acute da farmaci da banco sono di gran lunga più numerosi di quelli causati da tutte le droghe illecite. Tuttavia, giocare a calcio o fare jogging e anche, sorprendentemente, fare parapendio o traversate oceaniche in solitario non sono considerate compulsioni, diversamente dall’assumere abitualmente cocaina.

Anche i fattori socio-economici, le variabili giuridiche sono decisive nel determinare la pericolosità di un atto, come sanno sulla loro pelle quelli che consumano sostanze illecite, alle prese con dosi ogni volta diverse nella composizione e nella tossicità. Ma non crediamo sia lecito fondare la diagnosi di malattia psichiatrica su criteri così fortemente connessi all’ambiente e quindi indipendenti dall’organismo e dal cervello.
Da qualunque parte si guardi la questione, dunque, la compulsione al consumo, elemento centrale della dipendenza e concetto che fonda la messa a punto dei trattamenti sull’individuo, le politiche d’intervento sanitario e la giurisprudenza in materia, risulta non solo un termine teorico nebuloso e sfuggente ma costituzionalmente problematico.

Infine, per chiudere questa parte di critica della logica nosografica, un rilievo sulla relatività e quindi l’indeterminatezza dei criteri diagnostici 5 e 6 del DSM-IV. La quantità di tempo necessaria a ottenere la sostanza è ovviamente funzione della sua reperibilità e dell’eventuale controllo cui è sottoposta. In regime di proibizione, il tempo speso a procacciarsi la sostanza può diventare notevole (criterio 5), e conseguentemente grave la compromissione delle normali attività sociali, occupazionali e ricreative (criterio 6).

Sul modello di dipendenza come malattia

La preponderanza dei criteri comportamentali nell’inquadramento nosologico della dipendenza apre la questione del significato e del valore della dimensione biologica e fisiopatologica nella comprensione del fenomeno e impone una più attenta valutazione della validità del modello di dipendenza come malattia, almeno di quello oggi invalso.
Secondo le più autorevoli riflessioni sul tema, come per esempio quelle di Alan Leshner [10], direttore del National Institute on Drug Abuse, e Avram Goldstein [11], fondatore dell’Addiction Research Foundation, la tossicodipendenza deve essere considerata una malattia del cervello in quanto produce cambiamenti nelle strutture e nelle funzioni cerebrali. Scrive Leshner: “Una sorta di interruttore nel cervello sembra essere premuto come risultato di un uso prolungato di droga. Inizialmente il consumo è volontario, ma, quando l’interruttore viene premuto, l’individuo entra nello stato di dipendenza [addiction nell’originale, N.d.A.] caratterizzato dall’uso e dalla ricerca compulsiva della sostanza” (1997, p. 46).

Traspare in argomenti come questo l’idea che la dipendenza sia direttamente ed esclusivamente causata dalla sostanza e dalle interazioni che essa ha sul substrato nervoso. Un’idea che collide con le più banali evidenze. A questo proposito restano fondamentali le indagini di Lee Robins sui veterani eroinomani della guerra del Vietnam [12]. Nel campione studiato da Robins, solo l’1 per cento dei soldati usava eroina prima dell’intervento in Vietnam. Una volta nel Paese asiatico, questa percentuale era salita al 20 per cento. Al ritorno negli Stati Uniti, l’88 per cento di questi interrompeva il consumo di eroina. Dato ancora più importante, coloro che cessavano di consumare eroina sperimentavano crisi d’astinenza e dichiaravano di aver potuto accedere alla sostanza ma di essersi astenuti a causa dell’atmosfera sordida che circondava questa pratica, del biasimo sociale, del prezzo troppo elevato e della paura di essere arrestati. La percentuale di ricadute tra i reduci che si disintossicavano si attestava intorno al 10 per cento mentre normalmente il rateo di recidiva supera l’80 per cento.
Importanti in tal senso anche i molti studi sull’uso abituale non problematico, una modalità di consumo dalle sorprendenti dimensioni sociali (per esempio, quelli di Harrison e Mugford [13] e di Stimson e Oppenheimer [14]).

Così, una buona parte di questi cervelli in cui è scattato l’interruttore sono in grado di liberarsi dall’uso compulsivo per lunghi periodi, alcuni per sempre, ponendo in atto in modo deliberato strategie per limitare progressivamente il consumo e tecniche per evitare le ricadute. In questa condizione, certi cervelli manifestano forte desiderio di assumere la sostanza di cui erano dipendenti ma riescono comunque ad astenersi, altri cervelli con l’interruzione del consumo sembrano improvvisamente liberarsi di ogni pulsione. L’idea dell’interruttore che scatta meccanicamente in risposta al consumo prolungato di una sostanza d’abuso, tanto ripresa nel dibattito scientifico e divulgata a livello popolare, è allora senz’altro inadeguata a dar conto della complessità e dell’eterogeneità del fenomeno.

Ma cerchiamo di esplicitare meglio la logica implicita in questo tipo di modello ingenuo della dipendenza come malattia del cervello, che è poi purtroppo il modello di riferimento sul tema. Esso suggerisce che i mutamenti nell’encefalo in risposta all’esposizione reiterata verso una sostanza d’abuso siano necessari e sufficienti a spiegare l’insorgenza della dipendenza. È quindi fondamentalmente un modello monocausale, a dispetto del fatto evidente che la dipendenza è una condizione complessa e riferita a più domini, da quello socio-culturale a quello genetico ma comunque sempre rappresentati in modificazioni delle funzioni cerebrali. Questa assunzione, quindi, tende a ignorare le stesse acquisizioni delle neuroscienze sulla complessità, la plasticità e l’apertura dei processi cerebrali verso l’ambiente, verso gli stimoli di varia natura. Per queste ragioni tale modello rende difficile, per esempio, spiegare come mai i soggetti sottoposti a cure antidolorifiche con oppiacei non sviluppino uso compulsivo pur manifestando alcuni sintomi della dipendenza fisiologica; oppure per quali ragioni in taluni soggetti l’uso di una sostanza si instauri immediatamenti in maniera compulsiva.

Il modello sembra inoltre contemplare una sola direzionalità causale: dalla sostanza ai cambiamenti fisiologici nel cervello, al comportamento patologico. Esso trascura del tutto la capacità del cervello di elaborare ogni stimolo, compresi i simboli e i valori che analizza e tratta, incluso il comportamento che esso stesso produce e regola, in modificazioni funzionali ulteriori a partire dal riaggiustamento dei processi di neurotrasmissione sino al livello della regolazione genica. Il modello “ingenuo” esclude così, la via causale “all’ingiù” che renderebbe invece possibile l’interpretazione della complessità della dipendenza, l’incorporazione teorica del livello psico-sociale, in termini biologici e neurochimici.

È senz’altro certo, come solennemente affermato dal modello di dipendenza come malattia, che l’uso prolungato di sostanze produca mutamenti nel cervello. Ma questa asserzione ci dice veramente poco di significativo. Ogni stimolo prolungato si riflette in trasformazioni anatomiche fini, in modificazioni più o meno ampie della fisiologia del sistema nervoso. Sarebbe interessante a questo proposito studiare gli effetti a lungo termine sull’individuo e a livello sociale della cronica e prolungata esposizione ai programmi idioti che ormai tutte le televisioni trasmettono!

In maniera analoga, l’accertamento dei siti e dei meccanismi d’azione delle sostanze d’abuso, come l’identificazione del funzionamento e della farmacologia del sistema cerebrale del rinforzo, fornisce una rappresentazione solo parziale anche delle stesse basi biologiche della dipendenza. Il funzionamento dei recettori per le sostanze e del sistema di ricompensa cerebrale è influenzato dai processi di numerosi sistemi funzionali correlati e mutualmente modulati, dalla regolazione genetica della sintesi di neurotrasmettitori e recettori, alla mediazione emotiva, all’elaborazione cognitiva degli stimoli interni e ambientali. Una modulazione integrata a più livelli che dà conto della variabilità e della complessità del fenomeno e che solo nel suo complesso si può collegare alle manifestazioni comportamentali della dipendenza, quelle che peraltro – come abbiamo visto – specificano in larga parte tale condizione. Questa natura complessa, plurifattoriale, multidimensionale spiegherebbe come mai nonostante gli eccezionali progressi nella comprensione della farmacologia del sistema nervoso non sia stata ancora trovata una cura specifica per questa “malattia” e darebbe conto dell’apprezzabile efficacia di interventi di tipo cognitivo comportamentale o addirittura di approcci pseudo-religiosi al problema, come quelli propri di alcune comunità di recupero o degli Alcolisti Anonimi.

Effetti collaterali della medicalizzazione

La medicalizzazione ingenua della dipendenza ha imposto e sta imponendo una prospettiva estremamente parziale nell’osservazione e nell’analisi di tale fenomeno, introducendo una sistematica distorsione percettiva e cognitiva che Patricia e Jacob Cohen hanno definito “illusione clinica” [15]. I medici, infatti, conoscono e quindi tendono a considerare soltanto i consumatori cronici che cercano o che sono costretti al trattamento, ignorando o sottovalutando l’uso non problematico. Del resto, in regime di proibizione è difficile o di fatto impossibile condurre indagini sul campo volte a delineare il quadro della natura e delle dimensioni del consumo non problematico di sostanze psicotrope.

L’illusione clinica, inoltre, condiziona pesantemente la ricerca. Ciò avviene sia attraverso i meccanismi interni alla scienza, nei vincoli che il paradigma della dipendenza come malattia impone alla messa a punto dei protocolli sperimentali, e all’interpretazione dei dati; sia nei fattori esterni, nel privilegiare o nel rendere praticamente esclusivo il finanziamento delle ricerche coerenti a questa matrice teorica. Il condizionamento è tale che nessuna o scarsa considerazione viene riservata agli studi che non sono coerenti alle prescrizioni e alle descrizioni del paradigma della dipendenza come malattia anche quando questi sono accurati, ripetuti e condotti su una popolazione significativa come, per esempio, quelli di Robins sugli eroinomani veterani del Vietnam sopra discussi.

Un altro spiacevole effetto collaterale della medicalizzazione della dipendenza da sostanze è quello del ruolo cruciale assegnato ai medici nell’indirizzo e nella gestione della politica sulle droghe. I medici tendono ovviamente a enfatizzare la dimensione biologica, farmacologica e clinica rispetto alle variabili sociali ed economiche comunque determinanti nella dimensione e nella natura del fenomeno a livello epidemico e dell’individuo. Inoltre, gli esperti medici sul tema e gli attori scientifici ed economici dell’approccio medicalizzato (dai consulenti e specialisti alle industrie farmaceutiche) propendono ad affermare, più o meno consapevolmente e onestamente, l’esigenza di tale orientamento e la sua maggiore efficacia rispetto agli altri approcci al problema, di cui hanno l’ovvia inclinazione ad accentuare le dimensioni: affermano in tal modo la necessità della loro esistenza e tutelano i loro interessi economici, professionali, lo status, il ruolo sociale, il potere conquistato attraverso il lavoro sul tema delle droghe. D’altro canto, l’affermazione e il diffuso recepimento del modello di dipendenza come malattia si devono verosimilmente al fatto che esso rimuove lo stigma, la colpa e il biasimo sociale che hanno da sempre accompagnato gli eccessi nel consumo di una sostanza e la sregolatezza in genere. I comportamenti che una volta erano considerati perversione, vizio morale vengono trasformati in disfunzione psicopatologica, scostamento dalla norma fisiologica, squilibrio elettrochimico.

È probabile che la riduzione dell’abuso cronico di una sostanza al piano biomedico abbia incoraggiato le persone – in questo caso pazienti e non peccatori viziosi – ad ammettere il problema e a cercare una soluzione. Tuttavia, occorre non sottovalutare il potenziale iatrogeno di una definizione nosologica così controversa e della sua ancor più problematica divulgazione. La conoscenza e le rappresentazioni della malattia contribuiscono a formare negli individui, talora a creare sine materia, l’esperienza e il repertorio dei sintomi, ne influenzano l’evoluzione e il decorso. Ciò è vero soprattutto in campo psichiatrico, dove l’identità del quadro morboso rimane talora incerta, ovvero inafferrabile, essendo la sua natura, il suo vissuto, il suo stesso substrato nervoso ampiamente influenzati dalla morale, dal sapere, dalle aspettative e dai pregiudizi delle persone.

Molti studi (si vedano soprattutto quelli di Eiser [16]), concordemente hanno rilevato il negativo impatto della credenza di essere “malato di dipendenza” sul recupero e sulla remissione dei sintomi nei fumatori, negli alcolisti, nei consumatori cronici di sostanze d’abuso illecite. Questa è un’evidenza che deve far riflettere nella formazione e nella divulgazione dei messaggi sulla tossicodipendenza nel trattamento, ai fini di informazione e prevenzione, oggi in larga parte tarati sul controverso e ingenuo modello della dipendenza come malattia che abbiamo discusso in questo lavoro.

 

 

NOTE

[1] RUSH B., An enquiry into the effects of ardent spirits upon the human body and mind, 1793; ristampato in Medical inquiries and observations upon the diseases of the mind, New York, Hafner, 1810.

[2] AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-IV, American Psychiatric Association, Washington, D.C. 1994.

[3] WORLD HEALTH ORGANIZATION, ICD-10: The ICD-10 Classification of Mental and Behavioural Disorders, World Health Organization, Geneve 1992.

[4] STAHL S., Essential psychopharmacology, Camdridge University Press, Cambridge 1998.

[5] ZINBERG N., High states, a beginning study, National Drug Abuse Council, September 1974, pp. 1-50. ZINBERG N., HARDING W., e WINKELLER M., “A study of social regulatory mechanisms in controlled illicit drug users”, Journal of Drug Issues, 1977, 7, pp. 117-133. ZINBERG N., Drug, Set, and Setting. The Basis for Controlled Intoxicant Use, Yale University Press 1984.

[6] DAVIES J., “Pharmacology versus Social Process: Competing or Complementary Views on the Nature of Addiction?”, Pharmacol. Ther. 1998, 80, 3, pp. 265-275.

[7] DI CLEMENTI C.C., PROCHASKA L.O., “Processes and stages of self-change: coping and competence in smoking behaviour change”. In: Coping and Substance Use, Shiffman, S. and Wills, T. A. (a cura di) Academic Press, New York 1985, pp. 319-343.

[8] ELSTER J., Strong Feelings: Emotion, Addition and Human Behavior, MIT Press, Cambridge 1999.

[9] BMA – BRITISH MEDICAL ASSOCIATION, Living with risk, BMA, London 1994.

[10] LESHNER A.I., “Addiction is a brain disease and it matters”, Science 1997; 278, pp. 45-47. Leshner A. I., “Science is Revolutionizing Our View of Addiction – and What to Do About It”, American Journal of Psychiatry, 1999, 156, pp. 1-3.

[11] GOLDSTEIN A., Addiction: from biology to drug policy, Oxford University Press, Oxford – New York 2001.

[12] ROBINS L.N., HELZER J.E., HESSELBROCK M. e WISH E., “Vietnam Veterans Three Years after Vietnam: How Our Study Changed Our View of Heroin”. In: BRILL L. e WINICK C. (a cura di), The Yearbook of Substance Use and Abuse (vol. 2), Human Sciences Press, New York 1980.

[13] HARRISON L. e MUGFORD S. (a cura di), “Cocaine in the community: international perspectives” [special issue]. Addict. Res., 2, 1994, pp. 1-134.

[14] STIMSON G., OPPENHEIMER E., Heroin Addiction, Tavistock, London 1982.

[15] COHEN S., 1985. “Reinforcement and Rapid Delivery Systems: Understanding Adverse Consequences of Cocaine”. In KOZEL N.J. e ADAMS E.H. (a cura di), Cocaine Use in America: Epidemiological and Clinical Perspectives (DHHS Publication No. ADM 85-1414). Washington, DC: U. S. Government Printing Office.

[16] EISER J., “R. Addiction as attribution: cognitive processes in giving up smoking”. In: EISER J. R. (a cura di), Social Psychology and Behavioural Medicine,Wiley, Chichester 1982, pp. 281-299.
 

[17] EISER J.R. e GOSSOP M., “”Hooked” or “sick”: addicts’ perceptions of their addiction”, Addict. Behav. 1979, 4, pp. 185-191. EISER J.R., VAN DER PLIGT J. e RAW M., “Trying to stop smoking: effects of perceived addiction, attributions for failure and expectancy of success”, J. Behav. Med., 8, 1985, pp. 321-341.

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