Una catastrofe del senso

Assistiamo in questi anni a un rinnovato interesse delle scienze umane per l’indagine sul mondo animale, come testimonia il moltiplicarsi di opere sull’argomento. Per limitarci all’ambito francese (la bibliografia in inglese è assai più ricca), si possono citare fra gli altri l’amplissima antologia interdisciplinare del 1998, curata da Boris Cyrulnik, Si les lion pouvaient parler, nella quale sono contenuti anche numerosi contributi di antropologi, nonché il fondamentale libro di Elizabeth de Fontenay, Le silence des betes, che, apparso nello stesso anno, espone il modo in cui le diverse tradizioni filosofiche occidentali hanno affrontato l’”enigma dell’animalità”, con ciò stesso rivelando quale sia la loro rispettiva idea di umanità. Ma anche il volume curato da chi scrive, del quale è anche co-autrice, che contiene un ottimo saggio sulla fine delle ragione sacrificale ad opera di un antropologo “da campo” quale Mondher Kilani (2000), è un piccolo segno dell’interesse dell’antropologia verso tale oggetto di studio.

Un ulteriore indizio di tale interesse è il fatto che Terrain, una delle più prestigiose riviste francesi di etnologia, abbia dedicato un numero recente (2000) al tema del “pensiero” degli animali. Degno di attenzione è che l’argomento privilegiato dai saggi che vi sono raccolti non riguardi il rapporto uomo-animale, tema niente affatto inconsueto in ambito etno-antropologico, ma l’esprit animal, la mente degli animali, per meglio dire se e come gli animali pensino. Le relazioni pratiche e simboliche con il mondo animale sono state ampiamente indagate in ambito antropologico: basti pensare al celebre e classico studio di E.E. Evans-Pritchard (1940) sui Nuer, una popolazione di pastori insediata lungo il Nilo bianco, in Sudan, e sulla centralità del loro rapporto fattuale e simbolico con i bovini, tale da far scrivere all’antropologo inglese che essi “parlano il bovino”. Ma fino a ieri per gli antropologi l’animale era interessante non di per sé ma in quanto cosa vivente, in quanto “preda del cacciatore, orgoglio dell’allevatore, docile ausiliario dell’agricoltore, compagno del proprio padrone, oggetto di uno scambio non monetario, vittima del sacrificatore, bersaglio dello spirito classificatorio” (Lenclud 2000: 6).

Ciò che invece è affatto nuovo è che oggi si cominci a interrogarsi, sia pure con tutte le cautele del caso, sull’altro polo della relazione sociale con l’alterità animale, chiedendosi anche, per esempio, cosa gli animali domestici traggano dal loro rapporto con gli esseri umani. Come scrive Dominique Lestel (1998) nel volume antologico che abbiamo citato, entrando nelle società umane e divenendo parte di una comunità di senso, gli animali domestici subiscono una sorta di acculturazione, quella che risulta dall’influenza dell’uomo, cosicché, si potrebbe dire, “l’umano diviene una protesi identitaria dell’animale”. A tal punto che non è bizzarro chiederci – dice Lestel – se l’umano non costituisca per l’animale ciò che la scrittura ha rappresentato per l’uomo. Un altro aspetto della novità di cui abbiamo detto è che oggi non ci si limiti a indagare su come l’uomo pensi l’animale, ma ci si domandi “se ciò che passa per la testa dell’animale non possa rivelarci qualcosa di ciò che passa nella nostra”, come scrive ancora l’antropologo Lenclud. A suo parere, questa è dal punto di vista strettamente antropologico un’interrogazione del tutto pertinente. Poiché il progetto dell’antropologia è definire ciò che è proprio e comune a tutti gli uomini, indagare se e come gli animali pensino può aiutarci “a meglio comprendere quali siano le condizioni, che non sono esclusivamente biologiche, e le conseguenze, che non sono esclusivamente culturali, dell’emergere del pensiero specificamente umano (…)” (Lenclud 2000: 8).

Certo, a tale rinnovato interesse delle scienze umane, e particolarmente di quelle sociali, verso le altre creature non è estraneo il riflesso dell’importanza dei risultati acquisiti nel campo dell’etologia cognitiva e della primatologia. Dopo una fase segnata da una fondatissima diffidenza nei confronti del determinismo biologico e del riduzionismo genetico coltivati nell’ambito dell’etologia e soprattutto della sociobiologia, oggi il rinnovamento maturatosi in particolare nell’ambito delle ricerche primatologiche induce anche qualche antropologo a rivolgere il proprio sguardo all’alterità animale. Ma forse non è una pura coincidenza che tale interesse si manifesti in un tempo segnato da un processo di mercificazione degli animali giunto a esiti estremi e drammatici: alludo, ovviamente, alle ricorrenti emergenze del morbo della mucca pazza, alle ormai endemiche malattie che colpiscono massivamente gli animali da allevamento, ma anche agli inquietanti scenari che disegnano le sofisticate tecnologie volte a una spregiudicata manipolazione del vivente. Oggi che la tecnoscienza al servizio del mercato globale tende sempre più a fare degli altri viventi – e dell’intera natura – materia bruta manipolabile, sfruttabile, clonabile, oggi che gli animali sono ridotti a semplici strumenti di produzione della loro propria carne, pelliccia, latte, uova, ecc., è come se gli antropologi si rendessero conto che il rischio è non solo quello delle catastrofi ambientali e alimentari, ma anche di una catastrofe del senso: la pretesa di usare della natura e dei viventi come di semplici merci attenta alla salute e alla vita degli umani, ma anche alla loro identità e al loro mondo simbolico. Infatti, se è vero che l’animale è un operatore simbolico fondamentale, se è vero, cioè, che pensando gli animali gli umani hanno potuto e possono pensare il mondo, ci si domanda se la riduzione del bovino a merce deteriorata da destinare all’ammasso e la fabbricazione della pecora Dolly nonché della scimmia con geni di medusa non rischino di sancire il declino del “pensiero selvaggio”, vale a dire di quel pensiero transculturale, intelligente e ordinatore, che pensa il mondo per metafore e metonimie. Insomma, la mercificazione degli animali quale si compie con l’industria zootecnica globalizzata, che riduce altre specie a semplici ingranaggi della macchina produttiva (insieme alla totale manipolazione del vivente, ormai sottoposto a privatizzazione e brevettazione) rappresenta un punto di svolta gravido di conseguenze anche sul piano dell’antropopoiesis (1), vale a dire della produzione sociale e simbolica dell’umano: in tutte le culture, in tutti i sistemi di pensiero, infatti, la simbologia animale è fonte indispensabile per la costruzione dell’umano e del culturale. E’ dubbio che l’uomo possa “costruire” e potenziare l’umano, e rinnovare la propria cultura, al di fuori di una relazione affettiva e simbolica con l’alterità animale.

In realtà, non v’è alcuna società che abbia con le altre specie un rapporto meramente strumentale e utilitaristico. Perfino fra le società di cacciatori-raccoglitori, viventi ai limiti della sopravvivenza, l’atto della caccia e dell’uccisione è sentito come altamente problematico, come una trasgressione, come la violazione di un equilibrio che l’uomo non avrebbe il diritto di turbare. Non a caso esso si accompagna a rituali compensatori volti a riconciliarsi con la vittima e/o con il Signore (o la Signora) degli animali, dal quale si crede dipenda la vita delle altre creature e l’esito della caccia. Già a partire da Frazer, l’antropologia ha messo in luce il carattere espiatorio di tali riti: per esempio, l’adozione dei cuccioli della preda uccisa e l’offerta agli animali o agli spiriti che li rappresentano di alcune parti del corpo della preda, offerta che deve obbligatoriamente precederne la consumazione, a parere di alcuni antropologi rappresentano pratiche compensatorie che servono a riparare simbolicamente a ciò che è sentito come animalicidio. Quanto alla nostra società, si potrebbe sostenere che la radicale mercificazione degli animali da allevamento, in definitiva la loro cancellazione in quanto esseri viventi, senzienti e intelligenti, e l’insensibilità verso le sofferenze loro inflitte trovino anch’esse una compensazione nel dilagare della petmania. In effetti nei paesi dell’Occidente capitalistico il costume di tenere presso di sé animali da affezione si va talmente generalizzando che gli antropologi che lo hanno analizzato – fra questi Jean-Pierre Digard – si chiedono se esso non serva a tacitare il senso di colpa per le sofferenze, le torture e gli stermini consumati ai danni degli animali da allevamento e di quelli selvaggi. Digard (1990: 237) afferma che “esattamente nello stesso modo in cui gli indios dell’Amazzonia devono conciliarsi con svariati riti la benevolenza degli animali che cacciano e adottarne alcuni per compensare le sevizie che infliggono agli altri” noi risolviamo con la protezione e la cura dei pets lo spinoso dilemma morale che si accompagna al fatto di allevare animali per ucciderli. Ma è lo stesso antropologo, poi, a deplorare questo costume in quanto sintomo dell’”arretramento dei valori umanistici”, indizio di “regressione sociale e culturale”, espressione di “un nuovo oscurantismo” (1998: 67-68).

In realtà, la petmania quale si manifesta ai nostri giorni nei paesi dell’Occidente capitalistico di nuovo ha soltanto la dimensione e l’ampiezza e soprattutto il fatto che sia integrata in un sistema di mercato e consumistico. E’ vero che negli ultimi decenni nelle società occidentali ricche (non solo negli Stati Uniti, ma anche in Francia e in Italia) il fenomeno animali da affezione è cresciuto enormemente. Per esempio, in Francia, che si colloca al secondo posto dopo gli Stati Uniti, vi sono più di 35 milioni fra cani, gatti e altri pets (più della metà delle famiglie francesi tiene presso di sé uno o più animali da affezione). Ed è ben noto che questo costume ha alimentato un’industria assai florida di prodotti per pets e un giro d’affari cospicuo: cliniche veterinarie, negozi specializzati, sale per toilette, cimiteri e centri per la cremazione, perfino agenzie matrimoniali… Ma è un luogo comune tanto corrente quanto infondato quello secondo cui la passione per gli animali da affezione sarebbe un lusso delle società affluenti, un costume che riguarda esclusivamente l’Occidente ricco, una mania propria di strati sociali superiori che, avendo tutto, possono permettersi di tenere presso di sé dei pets.

In realtà, la propensione a integrare certi animali nel proprio gruppo sociale e a costruire un rapporto affettivo con essi, fino alla simbiosi e al maternage, è talmente diffuso nel tempo e nello spazio (dalle antiche civiltà egiziana, greca, romana…fino alle società “primitive” contemporanee, passando, appunto, per quelle capitalistico-occidentali) da configurarsi come un vero e proprio universale antropologico: un universale che si sottrae alla ragione economica e utilitaria per collocarsi nella sfera del senso, in una dimensione simbolica, affettiva, identitaria. E’ innegabile che nelle nostre società tale costume si manifesti talvolta come una forma di consumismo, di feticismo, di sentimentalismo o addirittura di disprezzo degli animali, i quali effettivamente in casi estremi ma non rari sono ridotti a semplici caricature degli umani o usati come effimeri giocattoli usa-e-getta. Ma, al di là delle forme talvolta deprecabili che il fenomeno animali da affezione può assumere in certi paesi ricchi, va detto che esso non è affatto esclusivo della tarda modernità occidentale. Facciamo qualche esempio. I Nambikwara, una popolazione poverissima del Mato Grosso studiata quasi sessant’anni fa dal celebre antropologo Claude Lévi-Strauss, erano soliti tenere presso di sé cani, galli, galline, scimmie, pappagalli, maiali e gatti selvatici con i quali avevano un rapporto di puro gioco e affezione. Queste creature, malgrado la cronica penuria alimentare di quella popolazione, ricevevano sempre la loro razione di cibo ed erano oggetto delle medesime attenzioni ed espressioni di tenerezza rivolte ai bambini del gruppo. E quando i Nambikwara – che, lo ricordiamo, erano una popolazione semi-nomade – nella stagione secca abbandonavano il villaggio per inoltrarsi nella savana divisi in bande, portavano gli animali con sé, tenuti in braccio, aggrappati ai capelli delle donne, appollaiati in cima alle gerle.

Quello dei Nambikwara non è un caso isolato, poiché dall’Amazzonia alla Siberia moltissime sono le società “premoderne” in cui era (è) costume tenere animali da compagnia: coccolati e nutriti dalle donne con cibo premasticato o addirittura allattati al seno, i cuccioli erano completamente integrati nella società umana. A tal punto che la loro morte era accompagnata da rituali funebri simili a quelli riservati agli umani. Presso alcune popolazioni della Nuova Guinea alla morte del loro animale prediletto le donne si tagliavano una falange, esattamente come per la scomparsa di un bambino. Inoltre, nelle società “primitive” più disparate e in aree le più diverse è presente la pratica di allattare al seno cuccioli da affezione. In Australia vi erano società di cacciatori-raccoglitori in cui le donne allattavano i piccoli di dingo, di opossum e di canguri; tutt’oggi presso alcune popolazioni oceaniane sono presenti pratiche di maternage del cane e del maiale; e anche fra gli Indios dell’Amazzonia i cuccioli di alcuni animali catturati vengono allattati, nutriti con cibo premasticato, portati con sé dalle donne – in braccio, in testa, aggrappati alle gambe – “quasi fossero dei prolungamenti del corpo” (Erikson 1987). A questo proposito si può ricordare un caso interessante che riguarda l’Occidente ricco: nel 1979 un buon numero di donne si offrì di nutrire al seno un cucciolo di scimpanzé tenuto in uno zoo dell’Oklahoma, che rischiava di morire dato che la madre si rifiutava di allattarlo (Milliet 1998).

Nello stesso Occidente, dicevamo, il fenomeno animali da affezione non è una novità essendo attestato sin dall’antichità greco-romana. Ciò vuol dire che esso ha ragioni assai profonde: in realtà, gli animali e i pets in particolare sono dei referenti simbolici e affettivi dei quali gli umani non possono fare a meno. Non solo perché, come abbiamo detto, attraverso le altre specie essi possono pensare se stessi, gli Altri, il mondo (tutte le culture umane sono fittamente dense di simboli animali), ma anche perché la partnership con l’animale consente di soddisfare bisogni profondi, non solo affettivi ed emozionali, ma anche relativi alla costruzione e al rafforzamento dell’identità: il confronto con l’alterità animale può avere un’importanza decisiva per scoprire, comprendere e rafforzare il proprio sé.Purtroppo, questa è solo una delle facce della nostra universale relazione con le altre specie: l’altra è costituita dalla tendenza a dominare gli animali, a maltrattarli, mercificarli, sterminarli. L’attuale vicenda della “mucca pazza” e più in generale delle torture e patologie inflitte agli animali da allevamento mostra che quando prevalgono le ragioni del profitto e del mercato le altre specie possono essere ridotte a semplici cose, a merci da distruggere massivamente quando lo richiedono le esigenze del mercato. E’ una deriva assai pericolosa, e non solo per le sue conseguenze sul piano economico e su quello della salute collettiva. Rischia d’essere, lo ripetiamo, anche e soprattutto una catastrofe del senso, perché senza una relazione affettiva e simbolica con gli animali non vi è possibilità di vera cultura né di relazioni rispettose fra gli umani.

BIBLIOGRAFIA

Cyrulnik B. (s.l.d.), Si les lions pouvaient parler. Essays sur la condition animale, Paris, 1998, Gallimard.

De Fontenay E., Le silence des betes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris, 1998, Fayard.

Digard J.-P., L’homme et les animaux domestiques. Anthropologie d’une passion, Paris, 1990, Fayard.

Digard J.-P., “Une passion cathartique: les animaux de compagnie”, in C. Bromberger (s.l.d.), Passions ordinaires. Du match de football aux concours de dictée, Paris, 1998, Fayard, pp. 41-68.

Erikson E., “De l’approvoisement à l’approvisionnement: chasse, alliance et familiarisation en Amazonie amérindienne”, Techniques et Culture, n.9, 1987, pp. 105-140.

Evans-Pritchard E. E., The Nuer. A Description of the Modes of Livelihood and Political Institutions of a Nilotic People, London, 1940, Oxford University Press (trad. it. I Nuer. Un’anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli 1975).

Frazer J. G., The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, ediz. ridotta, Londra, 1922 (1890), Mc Millan, capp. 53 e 54 (trad. it. rid., Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri 1965).

Kilani M., “La ‘mucca pazza’, ovvero il declino della ragione sacrificale”, in A. Rivera (a cura di), Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale (saggi di L. Battaglia, M. Kilani, R. Marchesini, A. Rivera), Dedalo, 2000, Bari, pp. 73-112.

Lenclud G., “Et si un lion pouvait parler…Enquetes sur l’esprit animal”, Terrain (“Les animaux pensent-ils?”), Editions du Patrimoine, 2000, Paris, pp. 5-22.

Lestel D., “Des animaux-machines aux machines animales”, in B. Cyrulnik (s.l.d.), 1998, op. cit., pp. 680-699.

Lévi-Strauss C., La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara, Paris, 1948, Société des Americanistes (trad. it. La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, Torino, Einaudi 1971).

Milliet J., “La part féminine dans le phénomène animal de compagnie”, in Boris Cyrulnik (s.l.d.), 1998, op. cit., p. 1086-1093.

Rivera A., “Una relazione ambigua. Umani e animali, fra ragione simbolica e ragione strumentale”, in A. Rivera (a cura di), 2000, op. cit. , pp. 11-71.

NOTE

1) Uso il termine nel significato antropologico che gli conferiscono Claude Calame, Mondher Kilani e Francesco Remotti, i primi due curatori e prefatori del La fabrication de l’humaim dans les cultures et en anthropologie (Payot, Lausanne 1999), volune nel quale è contenuto il saggio di Remotti, “Thèses pour une perspective anthropopoiétique” (pp. 15-31), che si diffonde ampiamente sul concetto.

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