Una Corte per giudicareil mondo

Creare un tribunale mondiale per giudicare i criminali di guerra. Un’idea dai contorni utopistici che sta per diventare realtà. A metà del mese scorso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato il suo avallo ufficiale all’iniziativa, accettando l’invito del governo Italiano di ospitare a Roma la Conferenza diplomatica che dovrà approvare lo statuto di questa Corte internazionale permanente.

Nelle intenzioni degli Stati promotori dovrà essere un’organismo indipendente, imparziale e, soprattutto, permanente. Non un tribunale creato ad hoc, come quelli istituiti per giudicare i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia e in Rwanda, ma una Corte penale sempre presente a cui gli Stati e forse anche i singoli cittadini si potranno appellare per chiedere giustizia contro i torturatori, i criminali di guerra e chi è colpevole di genocidio. Se, come si prevede, entro il Duemila il Tribunale entrerà in funzione, si tratterà senz’altro di un potente strumento per il rafforzamento del diritto internazionale. E comunque, rappresenta fin da oggi un atto di fiducia da parte dei legislatori nella possibilità di garantire una giustizia sovrannazionale, a tutela dei diritti umani universali al di là degli interessi dei singoli paesi. “Sarà in ogni caso un deterrente per i criminali e un monito contro l’impunità”, sottolinea Emma Bonino, che nel 1994, in qualità di rappresentante del governo italiano, ha avanzato la proposta all’Onu e che ha rilasciato un’intervista a Galileo.

La risoluzione approvata dall’Onu il 15 dicembre scorso rappresenta un passo in avanti in vista dell’istituzione del Tribunale Penale Internazionale?

“Sì, è certamente un risultato importante. Era atteso da tempo e finalmente è giunto a fugare ogni timore sul raggiungimento di un primo e fondamentale obiettivo: il 1998 come data limite per la Conferenza diplomatica istitutiva del Tribunale. Il cambio di secolo e di millennio è alle porte, e se vogliamo concludere questo secolo – tra i più sanguinari della storia dell’umanità – con un cambio di prospettiva, con un’apertura verso una speranza di giustizia e di pace, non potevamo attendere oltre il 1998. Infatti, le procedure burocratiche e di ratifica che faranno seguito alla Conferenza diplomatica saranno lunghe ed estenuanti. Se per il Duemila vogliamo inaugurare un secolo in cui i valori si impongano sugli interessi politici ed economici questo era il momento di agire. Abbiamo dovuto aspettare 50 anni perché quella che ai più sembrava una nobile utopia diventasse realtà. Ora bisogna senz’altro concentrare la nostra attenzione e le nostre energie sulla esatta configurazione del tribunale. E il problema non è da poco”.

Che cosa la preoccupa di più?

“Dicevo che il problema non è da poco e mi riferivo proprio alle difficoltà che ancora permangono e che richiederanno grande impegno da parte dei paesi cosiddetti “like-minded” per cercare di convincere tutti quei paesi che ancora non sono favorevoli all’istituzione del Tribunale (molti di quelli asiatici, la Cina in testa, e tanti che pongono numerose difficoltà, come la Francia, ndr) o che vorrebbero plasmarlo secondo interessi nazionali e di fazione. Tra queste nazioni ve ne sono di due tipi. Vi sono quelle che dichiarano apertamente la propria contrarietà e quelle che, invece, agendo nell’ombra, al riparo di argomentazioni pseudogiuridiche, hanno strategie più difficili da combattere e sono più difficili da identificare. Questi paesi, pur dichiarandosi apertamente favorevoli, di fatto, fanno in modo di ostacolare con argomentazioni pretestuose il processo di istituzione della Corte. L’ostacolo più pericoloso è rappresentato dal rischio di interferenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul funzionamento del Tribunale e dal conseguente rischio di inficiarne l’autonomia”.

Quali sono i nodi ancora da sciogliere?

“Ovviamente sono ancora tanti. Quelli più urgenti riguardano i poteri del pubblico ministero, i rapporti con i giudici nazionali, la cattura e la consegna dei criminali. Insomma, è ancora a rischio l’efficacia e l’autonomia di un organismo fondamentale per la giustizia e la pace. Tutto ciò non deve comunque sminuire i successi finora ottenuti, e che non sono pochi. Solo pochi anni fa, chi credeva nel Tribunale, come noi del Partito radicale transnazionale che abbiamo promosso con forza la campagna a favore della sua istituzione, veniva considerato un sognatore. Il Tribunale ci sarà, questo conta sopra tutto”.

Cosa succederà dopo la Conferenza di Roma?

“Il 15 giugno inizieranno i lavori della Conferenza diplomatica che porteranno all’adozione dello statuto elaborato dal Comitato preparatorio dell’Onu. Il 17 luglio i giochi saranno fatti. I paesi favorevoli avranno combattuto per una Corte equa ed efficace, e soprattutto autonoma. I contrari saranno usciti allo scoperto. Su queste basi inizierà il difficile lavoro di ratifica dello Statuto che, si spera, nel frattempo sarà stato adattato alle necessità e alle richieste della comunità internazionale. Innanzitutto, si spera che il Tribunale non esca indebolito rispetto ai poteri dei tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Ruanda. Sicuramente, allo stato attuale, la bozza di statuto del Tribunale permanente concede al pubblico ministero molta meno autonomia e capacità di iniziativa di quanta ne sia stata concessa ai pubblici ministeri dei tribunali ad hoc. Speriamo che, oltre alle attese, anche i tempi siano rispettati. Sarebbe una sconfitta per tutta la comunità internazionale se il terzo millennio non nascesse nel segno del rispetto del diritto internazionale; se prevalessero ancora una volta le ragioni del terrore e della violenza”.

Quali sono le garanzie che questo Tribunale potrà agire tempestivamente, in modo efficace e soprattutto indipendente dalla logica dei singoli Stati?

Le garanzie ancora non ci sono. Stiamo appunto lottando perché si possa giungere a questa conquista. Proprio questo è lo scopo della campagna dei radicali e del comitato “Non c’è pace senza giustizia” che, assieme ad altre organizzazioni internazionali, premono affinché siano rispettati i presupposti che lei ha citato. Soprattutto è importante intervenire sui lavori del Comitato preparatorio, affinché siano espressi con un linguaggio chiaro i poteri della Corte, i crimini sottoposti alla sua giurisdizione, e il ruolo del pubblico ministero”.

Tra queste garanzie, quali sono più a rischio? E per colpa di chi?

“La possibilità che il Consiglio di sicurezza possa porre il veto all’avvio delle indagini, e la riluttanza di taluni governi a vedere i propri connazionali giudicati da un organismo internazionale, rischiano di compromettere le garanzie di efficacia e tempestività. Se verranno superati questi ostacoli con una buona dose di volontà politica, con il consenso del maggior numero di Stati, il problema non dovrebbe sussistere. Purtroppo i paesi apertamente contrari sono ancora molti, la Cina soprattutto, e quelli che con ogni mezzo creano problemi e difficoltà come la Francia, sono ancora un numero indefinito. Ma la grande maggioranza dei paesi favorevoli, con l’Italia, la Germania, e soprattutto, di recente, la Gran Bretagna, potrebbero avere forza sufficiente per dare vita a un Tribunale efficace”.

In che cosa questo Tribunale sarà diverso dal Tribunale de L’Aja sui crimini commessi nella ex-Jugoslavia? Nelle procedure? Nelle finalità?

“Esso sarà diverso soprattutto per quella che è la sua caratteristica principale: sarà un Tribunale permanente. Sarà lì come monito e come realtà. Non sarà un tribunale dei vincitori, come furono Norimberga e Tokyo, non sarà più successivo ai crimini che deve perseguire, ma sarà il simbolo concreto di una volontà internazionale, sarà il simbolo del Diritto. Esso ammonirà tutti i potenziali criminali che il mondo non starà a guardare, che l’impunità per i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio non sarà più utilizzata come strumento del tutto inconsistente di pacificazione politica. Inconsistente perché annienta la dignità delle vittime e fomenta gli odi. Chi non vorrà aderire si squalificherà agli occhi del mondo come fautore in primis della violenza e dell’ingiustizia. Il mondo ha capito che non ci può essere pace senza giustizia. La Corte è destinata a dare concreta attuazione ai principi sanciti dal diritto internazionale; le sue sentenze varranno per tutti. Per poter rispettare qualcosa, questo qualcosa deve esistere e deve essere sancito”.

Scompariranno i tribunali ad hoc? Se questo non dovesse accadere, quali saranno i rapporti tra queste due istituzioni?

“I tribunali ad hoc sono nati da un’esigenza specifica. In assenza di un organismo permanente, erano l’unica soluzione in preparazione del progetto che subito dopo Norimberga era stato individuato come soluzione al problema. Certo, non come panacea a tutti mali, né come strumento capace di impedire le guerre, ma certamente come strumento degno dell’intelligenza umana per punire e sconfiggere la violenza grave, gratuita e devastante. Quando finiranno il loro mandato, ci auspichiamo esisterà già la Corte permanente a garanzia del rispetto del diritto internazionale”.

Si è pensato al meccanismo e ai luoghi della detenzione dei condannati dal Tribunale internazionale?

“A questo proposito ho il piacere di ricordare che, già nel caso del Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia, l’Italia, tra i primi, ha proposto ufficialmente all’Onu di ospitare nelle proprie carceri i criminali condannati o i detenuti in attesa di giudizio. Come l’Italia, molti altri paesi sono disposti a fare lo stesso. Il problema non è certo questo. Il problema più grave è: chi consegnerà alla Corte le persone incriminate perché possano essere giudicate e condannate, perché si possa fare luce sui fatti, perché anche gli innocenti possano vedersi riconosciuti tali? L’impunità non fa bene a nessuno, meno che mai alle vittime, agli innocenti e alla credibilità della comunità internazionale”.

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