Categorie: Spazio

Una discarica in orbita

Il primo fu lo Sputnik, lanciato dai sovietici il 4 ottobre 1957. Da allora, negli oltre quarant’anni di corsa allo spazio, sono stati catalogati e lanciati fuori dalla nostra atmosfera ben 25.600 oggetti. Ma solo 8.500 di questi sono ancora identificabili e in orbita. E appena il 6 per cento sono sonde o satelliti ancora operativi. Il resto è, a tutti gli effetti, spazzatura: decine di migliaia di frammenti, rottami e schegge lasciate dai vecchi satelliti, e che rappresentano una minaccia per quelli nuovi. Il 21 per cento è rappresentato da veicoli spaziali fuori uso, il 17 per cento è costituito da stadi propulsivi esauriti, il 13 per cento dai detriti delle operazioni spaziali di routine (parti sostituite, bulloni esplosivi, dispositivi di separazione e così via). Infine, ben il 43 per cento sono frammenti prodotti da circa 150 esplosioni, due o tre collisioni e una trentina di eventi impossibili da classificare.

Tutta questa ferraglia si trova, nella maggior parte dei casi, all’interno del cosiddetto guscio terrestre, cioè entro una quota di duemila chilometri. Ci sono circa 10 mila oggetti che superano i dieci centimetri, mentre quelli più piccoli di un centimetro sono più di 100 mila. Quali problemi potrebbero creare questi detriti? E cosa si può fare per risolvere la questione? Lo abbiamo chiesto a Paolo Farinella, professore di astronomia presso l’Università di Trieste e autore, insieme ai colleghi Luciano Anselmo e Bruno Bertotti, del libro “Detriti spaziali” pubblicato recentemente da Cuen.

Professor Farinella, perché questi detriti sono così pericolosi per i satelliti?

“Il problema principale è la loro velocità. Infatti, questi oggetti viaggiano a decine di migliaia di chilometri orari e una qualsiasi collisione avrebbe l’effetto di una bomba. Il problema si aggrava nel caso di veicoli con equipaggio: sono ricoperti da pannelli che devono essere leggeri e quindi hanno una scarsa resistenza. Bastano oggetti di piccolissime dimensioni per perforarli e di conseguenza, nella peggiore delle ipotesi, addirittura uccidere membri dell’equipaggio. Non è un evento impossibile. Recentemente, un satellite francese è stato spezzato in due dai frammenti di un razzo della stessa nazionalità. Per fortuna, in questo caso, il satellite era disabitato”.

I detriti spaziali possono rappresentare un pericolo anche sulla Terra?

“No, per lo meno a breve scadenza. L’unico problema di una certa importanza è l’ipotetico danneggiamento di qualche satellite che trasporta materiale radioattivo. Il discorso è diverso se invece guardiamo i rischi per le prossime attività spaziali: se non cambiano le cose, in un futuro non molto lontano (dai 50 ai 100 anni) le continue collisioni potrebbero creare una serie di reazioni a catena che moltiplicherebbero i detriti e renderebbero inaccessibile il guscio terrestre”.

Cosa si può fare per scongiurare questo pericolo?

“Le possibili soluzioni sono di due categorie: rimuovere i satelliti fuori uso dalle orbite a rischio (soluzione a lungo termine) e ridurre la produzione dei detriti più piccoli (soluzione a breve termine). Nel primo caso si sta pensando di riportare a terra i satelliti non più operativi, ma questa operazione è piuttosto costosa perché occorrerebbe molto più carburante di quello che normalmente si usa oggi. Altro rimedio, che in parte è già stato utilizzato per l’orbita geostazionaria nella quale si trovano numerosi satelliti per le telecomunicazioni, potrebbe essere di alzare la quota del satellite di 50-300 chilometri affinché, dopo avere terminato il propellente, i movimenti della sonda siano determinati solamente dalle leggi della meccanica celeste. Invece, per quanto riguarda la limitazione dei frammenti, bisognerebbe vuotare i serbatoi del propellente residuo in modo da evitare le esplosioni, una delle fonti principali di detriti”.

Ma chi dovrebbe risolvere il problema?

“A livello nazionale, nei singoli paesi ci sono ricercatori che si occupano dell’inquinamento spaziale. A livello internazionale, invece, esiste lo Iadc (Inter-Agency Space Debris Coordination Committee), del quale fanno parte la Nasa, l’Agenzia spaziale europea (Esa) e quella cinese. Inoltre, le Nazioni Unite tentano di risolvere il problema all’interno del Comitato sugli usi pacifici dello spazio. In entrambe le strutture la discussione è ancora aperta, anche se gran parte delle iniziative è bloccata dai costi piuttosto elevati. Gli organi competenti, comunque, considerano l’inquinamento spaziale come un pericolo piuttosto lontano nel tempo, e dunque non se ne interessano più di tanto. Inoltre, siccome lo spazio è un bene che appartiene a tutta l’umanità, nessuna singola nazione vuole farsi carico di creare norme che dettino una politica di ‘pulizia spaziale’ per tutti”.

Federico Ferrazza

Giornalista, è nato nel 1978. E' coordinatore del sito Wired.it. Ha scritto di tecnologia, new media e scienza per alcune delle principali testate nazionali; tra queste: Galileo, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, L’espresso, Il Venerdì di Repubblica, Wired Italia, XL, Il Corriere delle Comunicazioni, Sapere. Insegna new media e giornalismo on-line in alcuni master universitari. 

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