Una mano dall’agricoltura

Dai Monti dell’Atlante alle steppe del Medio Oriente: una vastissima area lambita da un solo mare. Il Bacino Mediterraneo, con la sua grandissima varietà di specie animali e vegetali, è una delle fucine di biodiversità più importanti e insieme più a rischio del globo. “I cambiamenti globali: il Mediterraneo sotto pressione” è stato l’oggetto del convegno promosso dalla Commissione Italiana Igbp (International geosphere biosphere programme) del Cnr, dal Wwf e dalla Fondazione Aurelio Peccei-Club di Roma, tenutosi a Roma lo scorso 23 novembre. Per la prima volta un’istituzione statale e un’associazione di ricerca si sono sedute allo stesso tavolo per discutere dello stato di salute del Mare Nostrum, di minacce, mission, obiettivi e strategie comuni. Il Wwf lo ha inserito tra le “Global 200”, le 238 ecoregioni prioritarie della Terra più ricche in termini di biodiversità.

“Negli ultimi 140 anni”, dice Elisa Manzini dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, “il riscaldamento globale è cresciuto in maniera non trascurabile, e soprattutto a causa di gas serra e di anidride carbonica. Gli impatti di questi gas nell’atmosfera, nei venti, nella biosfera, nel suolo, nei mari, hanno dato luogo a una diminuzione delle precipitazioni nell’area mediterranea che aumenterà a tassi crescenti”. Più siccità, dunque, e anche più inondazioni, rivelano gli scenari futuri frutti di simulazioni sull’evoluzione temporale della concentrazione di anidride carbonica.

Allarme anche per gli ecosistemi marini: oggi nel Mediterraneo rimangono solo due famiglie di coralli profondi, e “questi habitat sono nursery molto importanti per la vita di numerose specie animali”, mette in evidenza Cesare Corselli dell’Università di Milano Bicocca. Cosa fare quindi? Coltivare “bene” la terra. L’agricoltura infatti può giocare un importante ruolo nella mitigazione dei cambiamenti globali contribuendo a diminuire le emissioni di anidride carbonica, uno dei gas responsabili dell’effetto serra. E a conferma di questa tesi arrivano i risultati di alcune ricerche effettuate dall’Ibimet di Firenze. “Per ottenere benefici ambientali dall’agricoltura”, spiega Franco Miglietta dell’istituto, “bisogna fare in modo che la materia organica e i residui agricoli si accumulino all’interno del terreno, favorendo così l’assorbimento di anidride carbonica”.

Le tecniche da adottare garantiscono comunque una buona produzione e vanno dalle colture intercalari, che consentono al suolo di rimanere sempre ‘protetto’ da uno strato di vegetazione, a una aratura poco profonda che riduce il contatto della materia organica con l’aria, per arrivare alla razionalizzare della fertilizzazione, oggi adoperata in eccesso, e alla migliore gestione dei residui, come le stoppie, che dovrebbero essere interrate. “I dati dimostrano che in un terreno agricolo così trattato la sostanza organica può aumentare dell’1% all’anno e quindi ‘sequestrare’ annualmente più di una tonnellata di anidride carbonica”, afferma il ricercatore. “Una cifra che spalmata su metà della superficie agricola italiana si traduce in 46 milioni di tonnellate di anidride carbonica assorbita, pari al 10% della emissione nazionale”.

Per conoscere con precisione quanta anidride carbonica viene catturata dal terreno occorrono sistemi composti da una rete di stazioni a terra, che ne misurano l’assorbimento, e da velivoli. Un esempio di questa interazione terra-aria è quella messa a punto grazie a Sky Arrows del Cnr, un velivolo che rileva dati che poi vengono elaborati attraverso modelli matematici. “L’Osservatorio Kyoto della Toscana, allestito presso l’Ibimet” conclude Miglietta “attualmente è impegnato nella regione per valutare quanto gli assorbimenti forestali controbilancino le emissioni industriali. Dai primi rilievi effettuati nella zona delle colline metallifere si è notato che a fronte di 33 milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse annualmente, il terreno già ne assorbe 10 milioni l’anno, grazie ad una estesa presenza di aree boschive”.

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