L’anno prossimo, oltreché la presunta fine del millennio, chi lo volesse potrebbe festeggiare il primo secolo di vita della genetica. Difatti la sua data di nascita viene fissata, convenzionalmente, nel 1900, anno della riscoperta del saggio scritto da Gregor Mendel 35 anni prima. In esso si parlava dell’eredità di alcuni caratteri delle piante di piselli, veniva abbozzato un modello matematico che ne descriveva l’andamento di generazione in generazione. Da quel momento un nuovo e fecondissimo filone di ricerca si sovrappone al rinnovamento delle scienze biologiche che, quasi cinquant’anni prima, era cominciato con la pubblicazione dell’Origine delle Specie di Charles Darwin, avvenuta nel 1859.
Nasceva così una divisione tra due filoni di ricerca, ancora presente nell’ambito della teoria dell’evoluzione, e più in generale della biologia. Da una parte, i naturalisti, coloro che si occupano degli aspetti più macroscopici dei viventi, che comprende i sistematici, i paleontologi, gli ecologi; dall’altra, i genetisti, che studiano i meccanismi di trasmissione ereditaria dei caratteri.
Nei primi tre decenni del ‘800, tale divisione sembrava insanabile, al punto che i primi studi di genetica erano esplicitamente anti-darwiniani. Non sembrava cioè possibile conciliare i dati provenienti dall’ambito naturalistico, su cui Darwin aveva fondato la sua teoria, con le scoperte sui geni secondo le quali le specie pareva non potessero gradualmente evolversi l’una dall’altra. Infatti, stando agli studi di genetica, una nuova specie poteva nascere solo in seguito a vaste ed improvvise macromutazioni che coinvolgevano contemporaneamente l’intero organismo.
Dagli anni ‘30 le cose iniziano a cambiare, grazie anche al fatto che le nuove generazioni di genetisti erano cresciute in un contesto decisamente più aperto al darwinismo di quanto non fosse quello di fine ‘800, quando la teoria dell’evoluzione ancora faticava ad essere accettata. I genetisti iniziano quindi a cercare di rendere coerente la teoria dell’evoluzione con la genetica, puntando su un approccio statistico alla selezione naturale, inaugurando così la genetica delle popolazioni, basata non più sull’analisi dei singoli individui, ma sulla distribuzione statistica dei caratteri ereditari all’interno di popolazioni più ampie.
Questo mutamento fu però possibile soprattutto grazie ad un’innovazione concettuale proveniente dall’ambito naturalistico. Sono infatti i naturalisti che hanno introdotto il concetto di popolazione, per sottolineare che la vera identità di una specie non risiede in un’essenza metafisica sempre identica a sé stessa e comune a tutti suoi membri. Al contrario, la specie viene definita come una comunità riproduttiva, e la diversità degli individui al suo interno non viene più considerata una “deviazione” dalla normalità, ma piuttosto un elemento positivo, che consente alla selezione naturale di funzionare e che quindi l’evoluzione tende a conservare. Proprio grazie a questo accento posto dai naturalisti sulla diversità individuale, fra i genetisti si diffuse la consapevolezza che l’evoluzione naturale per selezione naturale non poteva essere compresa lavorando esclusivamente sul singolo individuo, ed estrapolando poi i risultati su larga scala. Nasceva così la necessità di affrontare il problema in termini più ampi, considerando le frequenze geniche all’interno delle popolazioni, e cercando di costruire modelli matematici che ne descrivessero l’andamento. Si intuì allora che una mutazione vantaggiosa, per quanto minima, si poteva gradualmente diffondere all’interno di una popolazione, portando alla sua graduale evoluzione. R.A. Fisher, T. Dobzhansky, J.B.S. Haldane, S. Wright, gli esponenti di punta della genetica delle popolazioni, poterono così spazzare il campo biologico dalle teorie macromutazioniste di inizio secolo.
L’interscambio fra le “due biologie” fu però reciproco, perché grazie alla genetica mendeliana i naturalisti poterono avvalersi di una teoria ereditaria, fino allora mancante, su cui fondare la teoria darwiniana, cosicché anche la macroevoluzione, l’evoluzione su scala temporale geologica studiata dai paleontologi, venne resa coerente con i modelli dei genetisti (nel 1944, Simpson pubblica Tempo and Mode in Evolution). La varietà che i naturalisti riscontrano nel mondo naturale è da addebitare semplicemente alle mutazioni casuali che lentamente si diffondono all’interno delle specie (Nel 1942, Mayr scrive Systematics and the Origin of Species).
Quindi, all’inizio degli anni ‘40, i diversi percorsi teorici si coagulano intorno ad un nucleo forte: l’idea che l’evoluzione sia causata esclusivamente dalla selezione naturale sui singoli organismi, e che avvenga in modo graduale, tramite la trasformazione lenta e costante di un’intera popolazione in una nuova specie. Con la cosiddetta “Nuova Sintesi” s’incontrano per la prima volta le due anime della biologia, quella naturalistica e quella genetica, formando un paradigma teorico che racchiude al suo interno tutta la realtà biologica: laboratori e foreste tropicali, alta matematica e raccolta di fossili. Concetti e pratiche scientifiche si incontrano, legati da un comune denominatore darwiniano. Per la prima volta, ci si rende conto che i due versanti della biologia non sono altro che due diversi punti di vista, complementari, sullo stesso oggetto: uno dinamico, su grande scale temporali; l’altro statico, funzionale, che considera poche generazioni. E i contrasti fra questi due modi di pensare la biologia furono risolti nella Nuova Sintesi proprio grazie al riconoscimento della loro diversità: la storia naturale e il laboratorio di genetica si affiancano, riuscendo così a gettare contemporaneamente luce sia sul percorso storico-evolutivo che ha creato un organismo, sia sui meccanismi di funzionamento del genotipo.
Gli anni successivi alla Sintesi hanno visto però un nuovo rivolgimento interno alla biologia. La scoperta del Dna, le tecniche di elettroforesi e del Dna ricombinante, la reazione a catena della polimerasi (nota come PCR, Polimerase Chain Reaction) hanno rivoluzionato profondamente la ricerca, consentendo di lavorare sul Dna in modo estremamente preciso, identificando, tagliando e rincollando pezzi di acidi nucleici, come se fossero pezzetti di carta. Nacquero così la biologia molecolare e l’ingegneria genetica, che hanno rivoluzionato il nostro modo di concepire il vivente. Per la teoria dell’evoluzione, gli effetti sono stati enormi. Il fatto che l’evoluzione non fosse più un concetto astratto, ma fosse visibile direttamente sui geni, e fosse addirittura manovrabile a comando, fece sì che la ricerca si orientasse prevalentemente nella direzione “molecolarista”, facendo passare in secondo piano il patrimonio naturalistico del darwinismo che grazie alla Sintesi aveva acquisito un ruolo di primo piano.
In questa situazione, il dibattito sulla teoria dell’evoluzione si è riacceso intorno alla fine degli anni ‘70, quando è stato messo in discussione il fatto che la selezione naturale sia l’unico meccanismo evolutivo. Si sono quindi ricreate le condizioni per uno scontro fra fazioni. Da un lato i diretti discendenti darwinismo della Nuova Sintesi, che vedono nella selezione naturale l’attore principale della scena evolutiva, e che considerano la dimensione genetica l’unico piano su cui si realizza l’evoluzione. Tale approccio è ben esemplificato dalla teoria del “gene egoista” del genetista inglese Richard Dawkins, secondo il quale l’evoluzione è solo opera della maggiore o minore “idoneità” selettiva dei geni, cioè della loro capacità di riprodursi e perpetuarsi attraverso gli organismi, i quali si trasformano in semplici “vettori” attraverso cui i geni continuano la propria esistenza. In questo modo, la selezione naturale diviene un programma algoritmico, di cui l’evoluzione biologica è l’esecuzione dal risultato prevedibile.
Contro quest’idea della vita, una parte dei biologi evoluzionisti (soprattutto paleontologi, come Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, ma anche genetisti, come Richard Lewontin), si è posta al di fuori della teoria sintetica, battendosi a favore di un “pluralismo darwiniano” (nelle parole di Gould) che oltre alla selezione naturale ammetta altri fattori evolutivi, restituendo all’evoluzione l’imprevedibilità che le compete. L’evoluzione, secondo Gould, è infatti una “lotteria” il cui premio è la sopravvivenza. La fortuna, il caso, vi hanno giocato, e giocano tuttora, un ruolo predominante: per caso, milioni di anni fa, è sopravvissuta una specie dotata di un abbozzo di corda vertebrale, che ha dato l’avvio alla gloriosa dinastia dei vertebrati di cui noi siamo forse i più giovani rampolli. Al contrario, migliaia di altre specie sono cadute sotto i colpi dell’avversa fortuna biologica. Ad esempio, le specie che ora si stanno estinguendo per mano dell’uomo non sono le “meno adatte”, ma piuttosto le più sfortunate, perché nei ristretti tempi della distruzione umana la selezione naturale è impotente.
Per questo, i “pluralisti darwiniani” (opposti da Gould ai “fondamentalisti”), sentono la necessità di “ripensare Darwin”, secondo il titolo dell’ultimo libro di Niles Eldredge, e di comprendere all’interno della teoria dell’evoluzione diversi approcci metodologici e teorici. Si tratterebbe cioè di integrare l’aspetto “duro” della biologia, cioè la genetica e la biologia molecolare, con l’approccio più “soft” caratteristico della sistematica della paleontologia. Le prime discipline sono caratterizzate da una mentalità predittiva che richiama i fondamenti epistemologici delle scienze par excellence, la fisica e la matematica. Le seconde hanno invece criteri esplicativi caratterizzati da una certezza limitata, che ci permettono di descrivere il cammino evolutivo su grande scala temporale solo a posteriori. Per questo, un manuale di paleontologia somiglia più ad un libro di storia, con tutti i suoi dubbi, le certezze e le interpretazioni, che ad un trattato di matematica.
Come accadde prima della Nuova Sintesi, oggi di nuovo due fazioni si fronteggiano lanciandosi accuse reciproche (“antidarwinisti”, “fondamentalisti”) magari ingiuste, ma giustificate dal tono altissimo di polemica che si è raggiunto. Ecco perché la Nuova Sintesi si presenta, dopo oltre mezzo secolo di vita, più attuale che mai. Se i suoi principi scientifici (l’esclusività della selezione naturale e la gradualità dell’evoluzione) sono al centro delle polemiche, i principi metodologici e lo spirito di integrazione che la hanno caratterizzata sono ancora saldamente validi. Modi diversi di pensare il vivente possono essere avvicinati in una visione della natura che non costringa a dover scegliere fra la storia e il laboratorio, e che quindi renda giustizia ad entrambe le dimensioni. Consentendoci quindi di comprendere come siamo fatti, e perché lo siamo diventati. Quali siano i fattori genetici, e quali i fattori ambientali. Quale il caso, e quale la necessità. Chi l’ingegnere, chi il bricoleur.
In questi dilemmi, scegliere significa perdere metà della risposta. La Nuova Sintesi è il paradigma che cinquant’anni fa ha risolto al suo interno questa tensione. Forse, riattualizzandone le linee di pensiero, potremo ritornare a percepire quel “qualcosa di grandioso” che Charles Darwin, nell’ultima pagina dell’Origine delle specie, attribuiva alla storia della vita sulla Terra.