Una terapia precoce contro l’autismo?

La cautela è d’obbligo, considerando la complessità del disturbo così come quella della sua diagnosi. Ma la ricerca, e soprattutto i risultati dello studio dell’University of California Davis Mind Institute, sono di quelli che fanno riflettere, discutere, e anche sperare. Gli scienziati hanno infatti osservato che identificando molto precocemente i bambini a rischio di sviluppare disturbi dello spettro autistico (Dsa) – già intorno ai sei mesi in alcuni casi – e sottoponendoli a una terapia – somministrata dai loro genitori – entro i tre anni è possibile ridurre così tanto i sintomi da non osservare in loro né segni di ritardo nello sviluppo né Dsa stessi.

Prima di scoprire cosa hanno fatto i ricercatori è bene ricordare perché lo studio vada preso con cautela. In primo luogo l’età dei partecipanti: diagnosticare l’autismo è difficile, e una diagnosi attendibile è possibile formularla solo intorno ai due anni. Inoltre lo studio degli scienziati non riguarda che un piccolo numero di partecipanti (appena sette).

Detto questo ecco quanto fatto dai ricercatori (e dai genitori dei piccoli). Per i ricercatori è comunque possibile identificare sintomi precoci di autismo già entro il primo anno di vita. Sintomi quali insolita e persistente fissazione per gli oggetti; comportamenti ripetitivi (quali per esempio far rotolare di continuo un oggetto), mancato sviluppo dei suoni; diminuzione di interesse nell’interazione con le persone e difficoltà a instaurare una comunicazione intenzionale (che sia anche solo cercare l’attenzione dei propri genitori).

Gli scienziati hanno quindi identificato sette di questi bambini (considerati ad alto rischio di sviluppar autismo), di età compresa tra i 6 e i 15 mesi, e li hanno poi arruolati in un programma di terapia sviluppato da Sally J. Rogers dell’University of California Davis Mind Institute (coautrice dello studio) e la collega Geraldine Dawson della Duke University (North Carolina), che si basa sul cosiddetto Early Start Denver Model (Esdm). Quest’ultimo è un approccio in cui sostanzialmente terapisti e genitori sono addestrati per sostenere i bisogni e gli interessi dei bambini, aumentando le loro opportunità di apprendimento, attenzione e coinvolgimento, durante tutte le attività dei piccoli, dal linguaggio, al gioco alle interazioni sociali. Per esempio, riporta Newsweek, se si osserva che il bambino tende a fare lo stesso gioco con un oggetto, il genitore può mostrare modi diversi di utilizzarlo. O ancora se i piccoli eseguono movimenti ripetitivi con le mani, i genitori possono tenerli occupati in un’attività che tenga impegnate le loro mani, e così via. Gli scienziati hanno così osservato che, rispetto ai bambini con tratti simili che non avevano ricevuto il trattamento, i piccoli che erano stati coinvolti nel programma (sei su sette) registravano meno segni indicatori di Dsa tra i 18 e i 36 mesi, mostrando meno ritardi nello sviluppo o nel linguaggio, e non avevano bisogno di alcuna terapia comportamentale di supporto.

Quanto osservato non può dirsi una scoperta, ma si limita piuttosto a suggerire che interventi precoci in bambini ad alto rischio di sviluppare Dsa potrebbero ridurre i problemi in seguito. Inoltre, come precisano anche i ricercatori, non si tratta tanto di una cura quanto piuttosto di un tentativo di contenere le disabilità associate ai disturbi dello spettro autistico.

Via: Wired.it

Credits immagine: sharyn morrow/Flickr

1 commento

  1. Non mi sembra serio,da parte di un giornalista serio e preparato nella sua professione,dare spazio a studi evidentemente falsati dalla personalità di alcuni ricercatori che sfruttano la loro posizione al solo scopo di mettersi in evidenza.
    È difficile accettare questa realtà,ma l’autismo è un disturbo legato a un difetto strutturale nervoso molto grave che coinvolge tutta la corteccia cerebrale,in pratica in parole crude,autistici ci si nasce e ci si muore.
    Non esiste,e non esisterà mai neanche in un lontano futuro una soluzione al problema autismo.
    L’unica possibilità,se possiamo chiamarla una soluzione,sarebbe un trapianto di cervello,ma in questo caso resterebbe solo il corpo dell’individuo che un volontario sarebbe disposto a scambiare con il proprio.

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