Un’arma italiana contro l’Hiv

    Il suo nome è raltegravir ed è il primo inibitore dell’integrasi, l’enzima che il virus Hiv usa per integrare il proprio Dna nel materiale genetico delle cellule umane. Con questa molecola entra sul mercato una nuova classe di farmaci, da aggiungere a quelli già usati nella terapia antiretrovirale. A costruire la molecola che colpisce questo bersaglio è stato un gruppo di ricercatori italiani dell’Istituto di Ricerca di Biologia Molecolare “Pietro Angeletti” (Irbm) di Pomezia, alle porte di Roma, centro di ricerca di eccellenza della multinazionale del farmaco MerckShap&Dohme.

    I ricercatori italiani alla fine degli anni Novanta stavano lavorando sul virus dell’epatite C, l’Hcv, ed erano riusciti a individuare molecole in grado di inibire l’attività di un enzima cruciale per la sua sopravvivenza, i dichetoacidi. Vista la similitudine fra l’enzima Hcv polimerasi e l’Hiv integrasi, il team provò a usare queste molecole anche contro questo secondo target. Risultato: funzionavano. Non restava quindi che cercare di trasformare i dichetoacidi in farmaci. Una sfida intrapresa anche dal laboratorio americano di Merck, ma vinta da quello italiano. Che nel 2003 ha consegnato a casa madre tre molecole candidate a diventare il vero farmaco.

    “A questo punto abbiamo consegnato il nostro lavoro nelle mani degli americani”, racconta Vincenzo Summa, a capo del team di ricerca. “E da lì a poco raltegravir, la seconda molecola disegnata da noi, dimostrò di essere la migliore, ed è stata sviluppata”. L’attenzione prestata dai ricercatori a mantenere alcune caratteristiche della molecola iniziale ha fatto sì che il nuovo farmaco abbia un profilo piuttosto innovativo: è potente anche contro i mutanti del virus e grazie al suo metabolismo risulta più tollerato dall’organismo rispetto alla maggioranza dei farmaci antiretrovirali.

    Dopo aver abbandonato gli stabilimenti di Pomezia, raltegravir è tornato in Italia per la sperimentazione sull’essere umano. È stato italiano, infatti, il primo paziente arruolato per i clinical trial i cui risultati sono stati valutati positivamente sia dalla Food and Drug Administration sia dall’European Medical Agency. (l.g.)

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