Uno dei grandi interrogativi sulla storia della vita è: cosa ha portato alla comparsa delle cellule moderne che compongono il corpo di tutti gli animali e le piante, dall’ameba all’uomo? A volte i suggerimenti giungono dalle fonti più inattese e a gettare una nuova luce sulle nostre remote origini oggi è “Rickettsia prowazekii”, il batterio responsabile delle più terribili epidemie di tifo della storia dell’umanità. Il pericoloso parassita è stato studiato da un gruppo di scienziati guidati da Siv Andersson, del Dipartimento di biologia molecolare dell’università di Uppsala, in Svezia. I risultati del lavoro, pubblicato questa settimana su Nature, dimostrerebbero che a determinare la nascita delle cellule moderne sarebbe stata un’infezione, condotta da un lontano antenato di Rickettsia ai danni di un altro organismo costituito da una cellula ancora primitiva.
All’alba della vita sulla Terra esistevano solo organismi formati da un’unica cellula e simili ai moderni batteri. Poi, circa un miliardo e mezzo di anni fa, comparvero i primi viventi costituiti da una cellula di tipo eucariotico, ovvero dotata di un nucleo e di alcuni organelli. L’evoluzione, che per quasi due miliardi e mezzo di anni era stata lentissima, subì allora un’improvvisa accelerazione: rapidamente comparvero organismi composti da molte cellule eucariotiche, poi i primi animali e piante.
Le cellule eucariotiche sono molto più organizzate di quelle che ancora oggi costituiscono i batteri. In queste ultime infatti non sono distinguibili compartimenti e la loro organizzazione può essere immaginata come quella di un’officina con una sola stanza. Nelle cellule eucariotiche, al contrario, sono riconoscibili alcuni reparti specializzati ed esse assomigliano a una fabbrica, con un centro operativo, rappresentato dal nucleo che contiene il Dna, e con alcuni laboratori, costituiti dagli organelli. Per esempio l’energia necessaria alla sopravvivenza delle cellule eucariotiche viene prodotta negli organelli detti mitocondri, dove si demoliscono le molecole ottenute dal cibo. Altri organelli, detti cloroplasti, sono presenti solo nelle cellule vegetali e in essi si svolge la fotosintesi clorofilliana.
Curiosamente però sia i mitocondri che i cloroplasti sono in possesso di una molecola di Dna che codifica alcune delle proteine necessarie al loro funzionamento. Ora, se quasi tutto il materiale genetico della cellula si trova nel nucleo, perché queste piccole sequenze di Dna sono invece localizzate negli organelli?
A questa domanda ha dato alcuni anni fa una brillante risposta la studiosa Lynn Margulis, proponendo una teoria che ha affascinato gli scienziati di tutto il mondo. Secondo la Margulis, quando sulla Terra esistevano solo organismi composti da cellule primitive, alcuni viventi ne “infettarono” altri e iniziarono a vivere al loro interno. Gli ospiti non vennero danneggiati dalla convivenza e anzi fra di essi e i loro invasori si stabilì una simbiosi tanto stretta che gli uni non poterono più sopravvivere senza gli altri. Fu così che infettati e infettanti finirono per comportarsi come un unico organismo, costituito questa volta da una cellula del tutto simile a quelle moderne. Gli organelli cellulari dunque sarebbero gli irriconoscibili discendenti degli antichi invasori.
Una teoria suggestiva che però aveva bisogno di una conferma. Per questo da un paio di anni gli scienziati dedicavano le loro attenzioni ai “proteobacteria”, la divisione ritenuta evolutivamente più vicina agli organismi antenati dei mitocondri e alla quale appartiene appunto “Rickettsia prowazekii”. Per verificare l’ipotesi i ricercatori svedesi hanno dunque sequenziato il genoma del batterio, scoprendo che esiste una sostanziale analogia fra i geni di quest’ultimo e quelli dei mitocondri delle nostre cellule. Inoltre, l’analisi delle differenze fra i due genomi dimostrerebbe che essi hanno seguito vie evolutive differenti a partire da un antenato comune esistito proprio circa un miliardo e mezzo di anni fa. Una simile scoperta sarebbe stata probabilmente sufficiente a soddisfare gli scienziati, ma lo studio di Rickettsia sembra aver fornito informazioni su un altro punto cruciale: cosa è successo nelle prime fasi di convivenza tra l’antenato dei mitocondri e il suo ospite.
“Rickettsia prowazekii” è un parassita obbligato, cioè non può vivere al di fuori delle cellule del suo ospite, come invece fanno altri batteri. In un organismo che adotta uno stile di vita di questo tipo molti geni divengono non necessari, perché il batterio può sopperire alla loro mancanza utilizzando il prodotto di geni omologhi presenti nel Dna dell’ospite. Di conseguenza in tali parassiti il patrimonio genetico tende a semplificarsi. I primi candidati a essere eliminati in questo processo sono i geni per gli amminoacidi e i nucleotidi, che sono componenti rispettivamente di proteine e materiale genetico e vengono sempre prodotti dalle cellule ospiti. Ebbene proprio questi geni mancano sia nel Dna di “Rickettsia prowazekii” che in quello dei mitocondri. Altri aspetti nell’organizzazione dei geni nel batterio e nei mitocondri dimostrano una sorprendente somiglianza nelle modalità di riduzione dei due Dna. Queste osservazioni potrebbero suggerire che esiste una sorta di via obbligata di semplificazione dei patrimoni genetici, che oggi viene seguita dal batterio del tifo, ma che circa un miliardo e mezzo di anni fa fu percorsa dall’antenato dei mitocondri. Resta però da verificare se le affinità rilevate sono veramente frutto di una convergenza evolutiva e non del puro caso.
La grande sfida della scienza in questo campo ora è studiare il Dna mitocondriale di molti organismi diversi, sperando che quello di uno di essi conservi alcune affinità con i Dna dei batteri. Osservando queste ultime sarà forse possibile svelare fino in fondo le incognite su quanto avvenne nella notte dei tempi.