Uranio impoverito, ecco i numeri del rischio

A qualche settimana a questa parte il grande pubblico ha imparato che i militari impiegano l’uranio non solo per costruire bombe nucleari (che per fortuna dopo Hiroshima e Nagasaky sono comunque rimaste chiuse negli arsenali), ma anche altre armi che invece vengono usate, eccome: in Bosnia, come abbiamo appreso in questi giorni, nella Guerra del Golfo (novecentomila proiettili), nell’intervento in Kossovo (tredicimila) e con ogni probabilità anche in Serbia.

Sono le ormai tristemente famose bombe all’uranio impoverito, in cui il metallo viene usato non come esplosivo, ma per costruire l’involucro del proiettile, conferendogli un alto grado di penetrazione delle corazze e dei bunker nemici. Il guaio è che impoverito o meno l’uranio rimane radioattivo. Quando un colpo esplode, parte dell’involucro si volatilizza mischiandosi al pulviscolo che può essere inalato da chiunque si trovi nelle vicinanze. E una volta dentro l’organismo, l’uranio pur impoverito e relativamente poco radioattivo può provocare danni notevoli.

La ricerca su queste armi è cominciata negli anni Settanta ed è stata completata negli anni Ottanta. L’esordio bellico risale alla guerra del Golfo, quando gli unici a esserne in possesso erano gli americani. Poi arrivarono inglesi e tedeschi. Da allora c’è stato un continuo alternarsi di rapporti a favore o contro l’uso di questi armamenti. Ma soprattutto si sono moltiplicati i silenzi e le omissioni. Martedì 9 gennaio scorso, a Roma, il “Comitato scienziate e scienziati contro la guerra”, durante una conferenza stampa ha presentato un rapporto – a firma, tra gli altri, di Carlo Pona, fisico dell’Enea, e Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare del Politecnico di Torino – sugli effetti conclamati della contaminazione da uranio impoverito.

Quattro i punti focali del rapporto: la certificazione del danno fisico, del danno ambientale, le normative esistenti per la restrizione e l’abolizione di questi armamenti, le stime sul rischio leucemia. Innanzitutto l’uranio impoverito è radioattivo, anche se emana solo radiazioni alfa e beta, di minore intensità rispetto alle radiazioni gamma dell’uranio 234 o 235. Queste radiazioni diventano comunque pericolose, quando c’è una contaminazione interna all’organismo.

Ci sono due differenti meccanismi attraverso cui l’uranio impoverito può arrecare danni alla salute: l’avvelenamento da metalli pesanti, che avviene prevalentemente per ingestione, e l’esposizione alle radiazioni. Senza considerare il danno immediato per le mucose (bocca e naso) e le eventuali ferite, l’inalazione delle polveri è facilitata dalla dimensione delle particelle in sospensione e dal diametro dei bronchioli. La parte di ossido di uranio che viene deglutita – perché parte del muco bronchiale finisce nello stomaco – si combina con l’acido cloridico prodotto dallo stomaco, divenendo parzialmente solubile (cloruro di uranio) ed entrando in circolo nel tratto intestinale.

L’ossido di uranio inoltre tende a migrare verso le ossa e i reni. Si calcola che il suo potere radioattivo sia pari a 30 volte quello dei raggi X. L’inalazione può avvenire subito dopo un bombardamento (quando vi è un’alta densità di sospensione delle polveri), ma anche nei giorni successivi. In questo caso la gravità della contaminazione dipende dal tempo di permanenza nella zona contaminata. In una sola ora si possono inalare da 1,7 grammi di pulviscolo radioattivo, fino a 10 grammi in caso di esplosioni vicine (400 metri circa). In un anno la dose di inalazione può arrivare 1,5-14 milliSievert, laddove non dovrebbe superare un milliSievert annuo. Bisognerebbe poi sommare la contaminazione da plutonio che rappresenta un aggiuntivo radioattivo normalmente presente nell’uranio impoverito, circa il 14 per cento secondo fonti del Dipartimento dell’energia americano.

Da questi dati si può stimare il numero dei casi di malattie derivanti da uranio impoverito da attendersi. Per 10 chilogrammi di proiettili (corrispondenti a 33 colpi anticarro), trasformati dall’esplosione in aerosol e polveri, si avrà un tasso di rischio leucemia, per eventuali persone in prossimità dell’attacco, pari a un uomo ogni 50. Per le persone invece contaminate indirettamente (cioè attraverso il pulviscolo inalato in dosi molto minori dopo la battaglia o per via alimentare), si stimano 200-250 casi annui in più ogni due milioni di persone. Per i militari non impiegati direttamente in battaglia questa previsione di rischio raddoppia o triplica. Vale a dire che su 40 mila soldati italiani nei Balcani c’è da aspettarsi 10-20 casi l’anno in più di leucemia.

Vi è poi il danno ambientale. La radioattività del suolo è stata confermata da misure di spettometria gamma eseguite dall’Istituto di scienze nucleari di Vinca (Belgrado), che hanno riscontrato nelle aree bombardate una concentrazione di urano impoverito fino a 235 KBq per chilogrammo.

La situazione di contorno, tuttavia, è forse più preoccupante della contaminazione da uranio impoverito. Nella guerra del Kosovo la Nato ha consumato l’equivalente del 7 per cento annuo della produzione di petrolio mondiale. Ha distrutto 16 raffinerie e impianti chimici, 39 centrali elettriche e 77 impianti industriali, riversando nell’ambiente non solo uranio, ma anche mercurio, diossina, ammoniaca, metalli pesanti, cloruro di etilene e tutta una serie di composti chimici cancerogeni. Nella sola zona di Pancevo, il numero annuo di tumori è già passato da duemila casi a dieci mila.

Rimane la questione politica internazionale. Il 30 agosto 1996 la sottocommissione Onu per la prevenzione delle discriminazioni e per la protezione delle minoranze ha stabilito che: “Tutti gli stati devono essere guidati, nelle loro politiche nazionali, dalla necessità di eliminare la produzione e la diffusione di armi di distruzione di massa o con effetti indiscriminati e in particolare le armi nucleari, le armi chimiche, il napalm, le bombe a frammentazione, le armi biologiche e le armi contenenti uranio impoverito”.

Anche la legislazione italiana (DL 17 marzo 1995, n. 230 e successive integrazioni dei Decreti Legislativi del 27 maggio 2000) conferma il danno radioattivo dell’uranio impoverito, prescrivendo misure di radioprotezione speciali per quantitativi superiori all’equivalente di una sola scheggia dei 31 mila proiettili sparati in Kosovo. Resta dunque aperto un solo interrogativo: perché nonostante ci fossero le informazioni per valutare la gravità del fenomeno e per impedire l’uso delle armi a uranio impoverito il silenzio e l’omissione hanno prevalso?

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