Vado a deporre in Tv

    L’aula del tribunale come il palcoscenico di uno show, imputati giudici e avvocati nei panni degli attori principali, i testimoni chiamati a deporre sotto le luci, e sullo sfondo il pubblico, quelle che dovrebbero essere solo comparse. In fondo all’aula, ma anche davanti ai televisori, sedute sulla poltrona di casa. Ma la telecamera fissa sui volti, a volte oscurati, degli imputati catapulta il telespettatore all’interno del tribunale e lo rende co-protagonista dello spettacolo giudiziario. In Italia l’occhio indiscreto della tv si è imposto nelle aule di giustizia grazie ad una trasmissione, “Un giorno in pretura”, che ha filmato nel corso dei suoi 12 anni di attività, piccoli e grandi casi: dai processi per tangentopoli a quelli di camorra, dai casi di pedofilia a quelli di ordinario malcostume. Un uso della telecamera scarno e asettico che ha portato nelle case degli italiani imputati più o meno famosi, ha reso familiari i volti degli inquirenti, ha colmato la distanza fra la gente e l’idea astratta di giustizia. Eppure più che questa televisione, all’apparenza invasiva, sono state altre le forme di comunicazione che hanno sviluppato in Italia l’interesse dell’opinione pubblica per la giustizia. Ne abbiamo parlato con Roberta Petrelluzzi, ideatrice e conduttrice della trasmissione.

    Come è nata “Un giorno in pretura”?

    È stato grazie ad un suggerimento di un pretore. Al tempo conducevo insieme ad un’altra giornalista “La posta del cittadino”, un programma che cercava di risolvere le grane e smascherare le truffe a danno dei cittadini. Andavamo in onda due volte a settimana in coda al telegiornale regionale del Lazio. Per rispondere ad una lettera ci recammo in pretura e lì il pretore ci disse “venite e vedere quello che accade qui”. Per lui era una denuncia, noi scoprimmo che la Pretura era un luogo dove poter raccontare delle storie e così iniziammo il programma. Il vecchio codice consentiva tempi molto rapidi per i procedimenti trattati in quella sede: si giudicavano i piccoli reati, i delinquenti comuni. Era una specie di commedia all’italiana, a noi interessavano i personaggi, le storie che raccontavano, le situazioni ai margini di cui erano protagonisti o testimoni. Poi il nuovo codice ci ha tolto questo bacino, i reati minori si sbrigano con i riti alternativi o i patteggiamenti che non sono pubblici e quindi non si possono riprendere. Così abbiamo puntato la telecamera sulle altre aule dove si svolgevano processi importanti. Contemporaneamente ci siamo anche spostati dal circuito regionale a quello nazionale.

    Che cosa ha decretato il successo della trasmissione?

    É stata tangentopoli, quando intorno all’operato dei giudici della procura di Milano si era creato un consenso corale, un’opinione pubblica forte della convinzione di aver colto gli uomini di potere con le mani nel sacco. Sorretti da quest’onda purificatrice i mass media hanno dedicato prime pagine e trasmissioni di prima serata al tema della giustizia. Poi quando il potere si è accorto che la situazione gli stava sfuggendo dalle mani, che i mass media stavano amplificando lo strumento giudiziario rendendolo così molto pericoloso, gli stessi uomini politici hanno influenzato i media e hanno messo in atto una corrente opposta, contro il potere giudiziario. Oggi il risultato è che la giustizia che tocca i potenti viene subito attaccata perché persecutoria e di parte, mentre allo stesso tempo si invoca una giustizia forte quando si parla di piccoli reati e delinquenti comuni.

    Chi sceglie i processi da filmare?

    Due sono i criteri in base ai quali si decide di mandare in onda un processo invece che un altro. Da una parte ci sono casi di interesse pubblico, come quelli di tangentopoli in cui era in discussione la classe politica, in cui si dibatte di reati che hanno turbato profondamente l’opinione pubblica. In questi casi l’azione della ripresa televisiva è tranquillizzante, la gente sa che si sta facendo giustizia, che i processi vengono celebrati secondo tutte le regole, che chi si macchia di un reato deve scontare una pena. Gli altri casi sono quelli per così dire di interesse antropologico, seguendo i quali si viene a contatto con realtà altrimenti sconosciute ai più. Si tratta ovviamente di situazioni di disagio sociale, di ignoranza e degrado che la televisione rende visibili anche a chi vive situazioni molto distanti.

    Ci si può opporre alla ripresa delle udienze?

    Certamente, basta che uno solo dei protagonisti (vittime, imputati, giudici o avvocati) dia parere contrario e le telecamere non possono entrare. Ci sono casi in cui la televisione si può appellare all’alto valore sociale delle riprese e allora i giudici possono concedere il permesso. Il più delle volte, comunque, se un imputato o un testimone non è d’accordo alle riprese gli si maschera il volto. Una soluzione che garantisce da una parte il rispetto della persona e dall’altra anche la verità. La mia sensazione è che se si ascoltano le parole senza guardare in faccia chi le pronuncia, o magari guardando l’effetto che quelle frasi hanno sugli altri, se ne capisce meglio il significato.

    Il modo in cui sono montate le immagini può influenzare chi le guarda?

    La prima cosa di cui ci siamo resi conto è che il montaggio delle riprese fatte durante i molti giorni dello svolgimento delle udienze dava l’impressione che i processi si risolvessero in una sola volta: in qualche modo venivano travisati i tempi, a volte molto lunghi, della giustizia. A questo abbiamo cercato di ovviare ricorrendo alle dissolvenze o con delle scritte che indicassero le diverse date in cui si celebrava l’udienza. Le singole immagini sono invece state fonte di molte polemiche negli anni scorsi. Per esempio, si è scritto molto sull’opportunità di far vedere l’imputato – che comunque non si era opposto alle riprese – portato in aula in manette o colto in difficoltà durante un interrogatorio. La mia impressione però è che questo tipo di polemiche siano nate solo quando i protagonisti erano degli uomini politici. La telecamera comunque di norma rimane fissa e gira solo a inquadrare chi parla. In questo senso la trasmissione è un documentario, e la telecamera non altera il dibattimento: dopo un po’ viene completamente dimenticata e tutti si comportano normalmente.

    Pensa che la televisione abbia avvicinato la gente alla gestione della giustizia?

    L’azione della televisione è stata importante soprattutto per chiarire quello che avviene all’interno delle aule di un tribunale. Sicuramente ora c’è più dimestichezza con il gergo giudiziario, ma ancor più importante, la gente ha capito il valore della testimonianza. Prima chi veniva chiamato a testimoniare se era in cattiva fede pensava di poter agire con superficialità. Dalla parte opposta, ma sempre per ignoranza, anche chi era in buona fede pensava che essere chiamato a testimoniare potesse in qualche modo essere controproducente. Guardando la tv ora si sa che chi non ha nulla da nascondere può andare a testimoniare senza timori, e che anzi il suo atto ha un valore etico.

    I mass media possono influenzare l’andamento dei processi?

    Dipende da quanto è forte la campagna d’informazione, o di disinformazione, che si fa intorno al processo. Ma in questo il potere di una trasmissione come la nostra è davvero minimo. È più quello che succede fuori dell’aula che quello che accade dentro a influenzare l’opinione pubblica e di conseguenza, a volte, i giudici. Può succedere, infatti, che in conseguenza dell’interessamento della gente i giudici siano bersagliati e messi sotto pressione tanto da non dormirci la notte, come nel caso di Marta Russo. Questo peso eccessivo non si trasforma quasi mai in un’azione positiva, anzi spinge ognuno a radicalizzarsi sulle proprie posizioni, incentivando un certo spirito corporativistico perché tutti si sentono attaccati. Le campagne innocentiste o colpevoliste fatte dalle pagine dei giornali o dai programmi televisivi hanno trasformato di volta in volta gli attori del processo in eroi o vittime sacrificali, usando dei toni che hanno turbato il lavoro dei giudici che rimangono, comunque, degli esseri umani e in quanto tali sensibili alle pressioni. Si può dire in questo caso che l’opinione pubblica, a sua volta spinta o guidata dai massa media, può influenzare quello che si chiama il libero convincimento del giudice, quella parte di giudizio che prescinde dalle prove ma che si basa sulla logica dei ragionamenti, sul buon senso delle persone. Quando il collegio giudicante si sente pressato oltre misura allora schiaccia il suo verdetto sulle prove.

    Ma non pensa che la sua trasmissione abbia contribuito a creare dei personaggi?

    No. La televisione e i giornali possono solo registrare la popolarità di qualcuno e quindi amplificare il fenomeno, ma non crearlo da zero. Come è stato per Di Pietro, per esempio. Lui si è fatto da solo, i mass media ne hanno perlato per necessità, quando orami non potevano più ignorarlo. La sua personalità era tracimante e la gente lo amava. I mezzi di comunicazione hanno però potuto distruggerlo. Abbiamo il tipico esempio di una persona amata dal popolo e odiata dall’intellighenzia (SI SCRIVE COSì!!!!)(che è quella che sui giornali scrive, e alla televisione parla). Ora sembra quasi che la gente non si possa permettere di amarlo.

    Ha mai subito una censura da parte dell’azienda?

    Si. Era agli inizi degli anni ‘90, si trattava di un processo di appello di un caso di incesto. Certo l’argomento era delicato, ma nel processo di appello non sono previste deposizioni, ci sono solo le letture degli atti da parte dei giudici e poi la difesa dell’imputato, in questo caso il padre. In quegli anni c’era più perbenismo di oggi all’interno delle istituzioni e anche nella Rai. E vedere un padre che non negava la sua colpa ma anzi si difendeva dichiarando che mai si era sentito tanto amato come quando commetteva atti incestuosi non era certo in linea con la politica aziendale. In quel caso successe che il procuratore generale di Roma, quel Filippo Mancuso oggi nelle file di Forza Italia, scrisse una lettera alla RAI dichiarandosi contrario alla messa in onda. La Rai mi chiamò e mi comunicò la sua decisione e io decisi di andare a parlare direttamente con lui. L’incontro fu molto istruttivo e capii che cosa significa il potere: durante il colloquio il procuratore generale mi diede l’impressione di ritornare sui suoi passi. Quando uscii mi resi conto che comunque rimaneva la sua parola scritta contro la mia che riportava l’esito positivo di un colloquio. L’azienda ovviamente decise che pesava di più la lettera scritta dal procuratore. Oggi un caso del genere non si ripeterebbe. Abbiamo filmato le udienze del caso di Simeone Nardacci (il bambino seviziato e ucciso dal padre di un suo compagno di scuola a Ostia, alle porte di Roma) e nessuno si è opposto. Ma questo non significa che si riconosca alla trasmissione un valore. Al contrario, ormai sono passati gli anni in cui la giustizia faceva tremare i potenti. Quindi, anche l’occhio indiscreto della telecamera ha perso la sua forza, perché non è più una minaccia e quindi non c’è censura. Nessuno ci mette i bastoni tra le ruote perché si ha fiducia nella serietà degli autori del programma ma anche perché, purtroppo, c’è il più completo disinteresse.

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