Verso una farmacologia rispettosa delle differenze

Da un punto di vista scientifico è ormai evidente che le differenze di genere non possono essere trascurate e la medicina e la farmacologia devono saper tenere in considerazione questi aspetti. Infatti uomini e donne non possono essere assimilati: ciascun genere deve essere considerato nella sua specificità, sia quando si tratta di valutare il modo in cui si sviluppa una patologia sia nella ricerca e nella sperimentazione delle nuove terapie farmacologiche.

Il genere condiziona il modo in diverse patologie insorgono e si sviluppano (basti pensare ad esempio alle patologie cardiovascolari oppure alla diversa incidenza di vari tumori tra uomo e donna), e anche il modo in cui i pazienti rispondono alle terapie. In particolare, da un punto di vista farmacologico, il genere influenza sia il percorso dei farmaci all’interno dell’organismo (farmacocinetica) sia il loro meccanismo d’azione (farmacodinamica). Fino a pochissimi anni fa, però, la medicina ha ritenuto che fosse il genere maschile, cioè l’uomo, il “portatore” delle caratteristiche di base della specie, con esclusione degli aspetti legati alle terapie ormonali o alla gravidanza e all’allattamento presenti solo nella donna. Eppure era noto che variabili importanti per valutare l’azione dei farmaci, come peso e altezza, volume di distribuzione e superficie corporea, possono essere sensibilmente diverse nei due sessi. Infatti, negli studi che indagano quale sia la dose migliore da assumere di un farmaco il termine di paragone utilizzato è sempre stato l’individuo maschio standard di 70 kg. Un atteggiamento di “prudenza”: la ragione principale dell’esclusione delle donne dai trial clinici è infatti rappresentata dal timore che un farmaco in sperimentazione possa costituire un rischio per una donna in età fertile. La mancanza di studi specifici sulle donne, soprattutto nelle fasi precoci della ricerca, produce quindi due importanti conseguenze: non consente di misurare la reale efficacia dei farmaci rispetto ai diversi generi e limita la scoperta di farmaci specifici per le donne.

Per fare solo degli esempi, i farmaci che hanno una maggiore affinità per i grassi (farmaci lipofili) hanno un volume di distribuzione più ampio nelle donne a causa della presenza maggiore di grassi (circa il 25%) nel corpo femminile rispetto a quello maschile. Va poi considerato il fattore peso: le donne pesano normalmente circa il 30% in meno degli uomini e quindi, a parità di dosaggio, la quantità di principio attivo che assumono in proporzione al peso è maggiore. Un esempio lampante di questo tipo di problematiche è legato alla quantità e qualità degli effetti avversi che si osservano nelle donne a seguito di terapie chemioterapiche antitumorali. A partire dai classici farmaci quali il 5-fluoro uracile per arrivare alle più moderne terapie antineoplastiche basate sull’utilizzo di anticorpi monoclonali diretti su target specifici quali bevacizumab (terapia antiangiogenica diretta verso il vascular endothelial growth factor, VEGF) ed erlotinib (utilizzato nel tumore al polmone EGFR positivo) gli effetti collaterali sulla donna sono molto maggiori rispetto all’uomo. La spiegazione potrebbe essere proprio nel differente “cammino” che il farmaco intraprende una volta entrato nell’organismo e dal tempo che si mette a essere assorbito ed espulso. Altri esempi possono riguardare farmaci utilizzati nell’ambito del trattamento dell’ipertensione, quali i farmaci calcio-antagonisti, che sembrano più efficaci nelle donne, oppure gli ACE-inibitori, per i quali alcuni studi dimostrano che riducono significativamente la mortalità tra gli uomini ma non tra le donne. Infine, nella terapia della depressione, le donne sembrano rispondere meglio agli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), mentre gli uomini trarrebbero maggiori benefici con gli antidepressivi triclici (TCA).

Oggi negli USA le donne sono obbligatoriamente inserite nei trial clinici e la Food and Drug Administration americana (FDA) ha istituito un ufficio che si occupa specificamente della salute delle donne e della loro partecipazione agli studi. In Italia, secondo i dati dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), la popolazione femminile è pochissimo rappresentata nelle sperimentazioni dei farmaci di Fase I, che servono a capire se le nuove molecole sono sicure e quale potrebbe essere il loro meccanismo d’azione, e quasi del tutto esclusa da quelle di Fase IV, cioè le analisi condotte sui pazienti dopo che il farmaco è stato messo in commercio. Tuttavia qualcosa si sta muovendo anche in Italia: dopo l’insediamento nel 2007 presso il Ministero della Salute della ‘Commissione Salute delle Donne’, nel 2008 l’Istituto Superiore di Sanità ha dato avvio a un progetto strategico incentrato sull’impatto delle terapie a seconda del genere, al fine di arrivare a cure più appropriate e ottenere risparmi per il Servizio Sanitario Nazionale. Nel 2010 poi, nel “Primo rapporto sui lavori della Commissione Salute delle Donne” è stata fatta una fotografia generale sulla salute delle donne cercando di diffondere principi fondamentali, quali la necessità di valutare sempre le differenze di genere negli studi scientifici anche mediante l’utilizzo di modelli di malattia adeguatamente trasferibili in prospettive di genere, modelli sperimentali appropriati per esperimenti in vitro ed in vivo (ad esempio il tipo/sesso degli animali o delle cellule scelte), l’arruolamento delle donne negli studi clinici in particolare per studio dei farmaci in fase clinica I e II. Tali iniziative governative sembrano finalmente manifestare una maggiore attenzione e considerazione della specificità di genere nella sperimentazione farmacologica.

Articolo pubblicato in collaborazione con Ingenere e Associazione Donne e Scienza

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