Alla fine di marzo, nel pieno della discussione finale sulla nuova Costituzioneche dovrebbe essere presentata il 9 maggio prossimo, il Sud Africa del dopo-apartheidha conosciuto un importante rimpasto governativo, che sta provocando unaserie di lunghe onde politiche. Il rimpasto ha sostanzialmente rafforzatola posizione di uno dei due vice-presidenti della Repubblica, Thabo Mbeki(ANC), rimuovendo dal governo i settori critici della sua politica e rendendolodi fatto il successore designato di Nelson Mandela alla presidenza. Trai ministri sostituiti sono Jay Naidoo, precedentemente ministro senza portafoglioper la gestione del RDP (Reconstruction and Development Programme) nel gabinettodel Presidente, passato al Ministero delle Telecomunicazioni, al posto del”critico” Pallo Jordan, e il ministro delle Finanze, Chris Liebenger,sostituito Trevor Manuel (ANC) (Vedi scheda in appendice per la lista completadei nuovi ministri).
Il rimpasto e il rafforzamento di Thabo Mbeki hanno provocato soprattuttoconseguenze sul partito di maggioranza ANC, il cui segretario generale CyrilRamaphosa ha rassegnato le dimissioni, annunciando di voler lasciare lapolitica per dedicarsi ai propri affari privati. Il rimpasto segnala quindiinnanzitutto un chiarimento dei rapporti di forza all’interno dell’ANC trai due leaders emergenti: Thabo Mbeki, “diplomatico” cresciutonegli ambienti dell’esilio durante i molti anni di illegalitý dell’ANC,e Cyril Ramaphosa, di poco pi giovane e massimo esponente dell’opposizionesociale interna all’apartheid degli anni ‘70 e ‘80 come leader del fortesindacato dei minatori (NUM: National Union of Mineworkers).
Il rimpasto segnala una seconda vittoria di Mbeki sul fronte della questionedecisiva della politica economica del governo. Il passaggio di Jay Naidoo(anch’egli proveniente dal mondo sindacale dove aveva ricoperto la caricadi segretario della maggiore confederazione sudafricana, la COSATU (Congressof South Africa Trade Unions) al ministero delle Telecomunicazioni fa seguitoalla decisione cruciale di eliminare l’ufficio speciale per la gestionedel RDP all’interno della Presidenza; la gestione del piano è oraaffidata ai diversi ministeri competenti per i vari settori e riportataall’interno del bilancio normale dello Stato.
Questa decisione riflette, a sua volta, il prevalere dell’approccio allapolitica economica sostenuto da Mbeki in contrapposizione ai settori pi”sociali” sia del governo sia dell’ANC, in particolare quellilegati al mondo sindacale.
Il rimpasto nel governo e la nuova formula di gestione del programma diricostruzione e sviluppo seguono infatti un lungo periodo di dibattito sullapolitica economica da applicare. Una politica stretta nella tenaglia delladuplice necessità di garantire l’equilibrio dei conti pubblici, perassicurarsi una stabilità finanziaria che sola potrà rendereil nuovo Sud Africa credibile e quindi attirare i necessari investimentistranieri, da un lato, e di approntare iniziative consistenti che puntinoalla correzione degli squilibri sociali lasciati in eredità dal sistemadi apartheid e rispondere alle molte e pressanti aspettative della maggioranzaafricana della popolazione, dall’altro.
In proposito è opportuno presentare subito alcuni dati sulla situazionesocio-economica del paese per come risultava all’incirca al momento dell’insediamentodel primo governo democratico nel 1994, soprattutto per quanto riguardala popolazione africana.
Gli squilibri tra la situazione media dei bianchi e quella dei neri in terminidi reddito, accesso all’istruzione e qualità dell’insegnamento, dellafornitura di servizi essenziali quali sanità, casa, acqua potabile,elettricità, cibo, sono di una gravità largamente nota, anchese nell’ultimo decennio (1985-94) si sono registrati alcuni miglioramentiper gli africani, in particolare per quanto riguarda il gap nei salari delsettore industriale, la spesa totale pro-capite per l’istruzione e i tassidi mortalità infantile.
Malgrado questi progressi, dovuti alla forte pressione sociale prodottanegli anni ‘80 da sindacati e organizzazioni civiche e alle politiche riformistedell’ultima fase dei governi dell’apartheid, alcune aree sociali rimangonocruciali dal punto di vista delle prospettive di riequilibrio e, di conseguenza,della stabilità sociale e politica di un paese come il Sud Africache ha conosciuto una grande espansione della società civile e dellasua mobilitazione organizzata.
Un primo decisivo problema è quello dell’occupazione. La definizionestessa di disoccupazione e le relative cifre sono oggetto di dibattito enon sempre facilmente interpretabili perché le stime delle varieagenzie interessate sono spesso condotte con metodologie diverse. Esistecomunque un consenso di massima attorno alle valutazioni espresse dall’UfficioCentrale di Statistica nel suo ultimo rapporto dell’ottobre 1994 (CentralStatistical Office(CSS), October 1994 Household Survey), secondo il qualeil 32,6% della popolazione totale economicamente attiva può essereconsiderata disoccupata.
La stessa indagine fornisce due serie di dati , a seconda della definizioneadottata di disoccupazione. Secondo una definizione ristretta (disoccupatialla ricerca attiva di un lavoro), il tasso di disoccupazione scenderebbeal 20,3% della popolazione totale, con una punta vicina al 26 % per i neri.Se si adotta invece una definizione pi larga (persone disoccupate che noncercano attivamente un lavoro ma che ne accetterebbero uno se venisse loroofferto), utilizzata anche dall’Ufficio Internazionale del Lavoro, la percentualesale per gli africani al 41 % (raffrontabile con il 17 % per gli asiatici,oltre il 23 % per i coloured (meticci) e il 6,4% per bianchi). Va inoltrenotato che la disoccupazione colpisce in maniera pi massiccia le donne,per le quali si assesta a oltre il 40 % della popolazione economicamenteattiva di tutte le razze, contro il 26 % degli uomini.
Altre stime, realizzate nel 1993 dalla Banca Mondiale per conto della SouthernAfrica Labour and Development Research Unit (SALDRU) dell’Universitàdi Cape Town, arrivano a cifre pi elevate di quelle del CSS, ovvero al 46% di africani. Di questi, tuttavia, quasi il 70 % dichiaravano di non stareattivamente cercando lavoro, un dato che si può prestare a due diverseinterpretazioni principali. Secondo alcuni, rifletterebbe lo scoraggiamentocrescente e la sfiducia a trovare comunque una occupazione. Secondo altri,nasconderebbe una situazione di “hidden employment”, di occupazioneocculta, nell’economia informale urbana e in settori marginali e di sussistenzanelle campagne.
Se non vi sono dubbi che i dati ufficiali e delle agenzie internazionalitendono a sottovalutare il contributo dei settori informale e marginale,concentrandosi soprattutto sull’economia ufficiale, rilevata statisticamente,questo è vero non solo per la “occupazione occulta” maanche per la “disoccupazione occulta”. Molti dei dati raccolti,infatti, sembrano sottorappresentare la realtà estesissima dellearee urbane abusive e delle “baraccopoli”, nelle quali si sonoriversate ondate successive di migrazioni (considerate illegali sotto ilregime di apartheid) dalle campagne verso i margini delle township nereregolari. Secondo alcuni, se questa realtà fosse pienamente rappresentata,il tasso di disoccupazione potrebbe salire di un ulteriore 10%.
I dati sulla disoccupazione si riflettono ovviamente su quelli relativialla povertà. Benché questa non sia circoscritta ai soli disoccupati,come sottolinea giustamente il sindacato, la presenza anche di un solo disoccupatoall’interno di una famiglia tende a deprimere in modo sensibile il redditofamiliare, facendolo in molti casi scendere al di sotto del cosiddetto livellominimo di vita, calcolato a 750 Rand mensili (1 R=0,25 US $).
Secondo indagini condotte da MarkData nel periodo febbraio-settembre 1995(vedi South African Institute of Race Relations, Fast Facts, aprile 1996),i sindacati avrebbero ragione nell’indicare che un regolare lavoro salariatonon è di per sé sufficiente a sfuggire alla povertà:il reddito medio di un lavoratore salariato a tempo pieno è infattidi 470 Rand, al di sotto quindi della soglia minima di sopravvivenza, enon di molto superiore al reddito mensile medio degli occupati del settoreinformale. Va ricordato che il dato relativo al salario medio mensile deilavoratori salariati è riferito in questo caso non solo ai settoriindustriale e commerciale ma anche a comparti caratterizzati da salari pibassi, come l’agricoltura e il lavoro domestico.
D’altra parte, la presenza di un disoccupato nel nucleo familiare tendea ridurre di circa 150-200 Rand il reddito totale della famiglia, facendoloscendere a 455-565 R mensili, contro i 643 R medi delle famiglie degli occupatidel settore informale e dei salariati, e gli 836 dei lavoratori autonomi.
L’estensione del fenomeno povertà in Sud Africa è confermatoda un recente rapporto, Key Indicators of Poverty in South Africa, pubblicatodall’RDP e compilato dalla Banca Mondiale, secondo il quale il 40% dei sudafricanipossono essere classificati come poveri. Il rapporto indica anche una distribuzionedel reddito tra le più squilibrate del mondo: il 40 % delle famiglie,cherappresentano il 53 % più povero della popolazione, rendono contodi meno del 10 % del consumo nazionale. La fascia più ricca (parial 5,8 % della popolazione) è responsabile invece del 40 % del consumo.Come è evidente, questi dati pesano negativamente e in modo consistentetanto sull’allargamento del mercato interno (limitato appunto da un cosÏalto numero di poveri e dalla squilibrata distribuzione del reddito) quantosulle prospettive di crescita economica del paese.
Le stime della Banca Mondiale mettono in luce un secondo fenomeno, peraltroprevedibile, ovvero la sostanziale concentrazione dei poveri nelle campagne.Il 75 % dei poveri vive infatti nelle aree rurali, in particolare nellaprovincia dell’Eastern Cape, nel KwaZulu-Natal, e nella Northern Province.Va tuttavia sottolineato che solo le due province più avanzate eindustrializzate (Gauteng e Western Cape) mostrano una maggioranza di non-poverinella popolazione totale. La elevatissima densità di poveri in alcuneprovince rurali riflette una conseguenza strutturale dell’apartheid, ilsostanziale sottosviluppo cioè delle cosiddette “patrie tribali”o bantustan, oggi appunto incorporate nelle nuove province. I bantustansi sono infatti caratterizzati storicamente per una altissima densitàdi popolazione su terre agricole di bassissima fertilità e produttività,una situazione che è stata all’origine delle massicce correnti migratorie(stagionali e permanenti) verso le aree urbane più moderne e industrializzate.In assenza di un programma efficace di intervento a breve-medio terminee su larga scala sulle campagne più povere (che richiederebbe peraltrouna quantità elevatissima di risorse non facilmente reperibili) E’prevedibile una continuazione del sostenuto ritmo di emigrazione verso learee urbane, se non una sua accelerazione a breve termine, facilitata dall’abolizionedelle leggi che, sotto il sistema di apartheid, cercavano (spesso senzariuscirvi) di frenare tale movimento considerandolo illegale.
In questo quadro, che trova il suo corrispettivo nella quasi mancanza diservizi essenziali nelle aree rurali e in una condizione urbana sempre pidegradata nelle township nere, il primo governo democratico del Sud Africaaveva lanciato al momento del suo insediamento nel 1994 un ambizioso programmadi ricostruzione e sviluppo (Reconstruction and Development Programme, RDP).
Considerato una sorta di “New Deal” sudafricano, il RDP si affiancavaalla politica economica del governo con la prospettiva di aggredire alcuniindicatori di povertà e ridurre in questo modo l’acuto squilibrionelle condizioni di vita tra neri e bianchi. In particolare, si ripromettevadi allargare sostanzialmente e in termini brevi (entro 5 anni) l’accessoai servizi essenziali. Tra i suoi obiettivi vi erano infatti la costruzionedi un milione di case, la fornitura di acqua potabile a un milione di famigliee l’allacciamento alla rete elettrica di 2,5 milioni di famiglie. L’ideaalla base del programma era che il perseguimento di questi obiettivi avrebbemesso in moto una nuova dinamica economica, grazie soprattutto all’espansionedel settore delle infrastrutture e delle costruzioni, la conseguente creazionedi occupazione, l’aumento dei redditi africani che ne sarebbe derivato e,infine, l’allargamento del mercato interno, che a sua volta avrebbe stimolatola crescita industriale. Ciò doveva anche permettere di allargaretendenzialmente la base fiscale del paese, generando cosÏ le risorsenecessarie per il finanziamento degli interventi sociali del governo a favoredei settori pi poveri e sfavoriti.
E’ ovviamente troppo presto per formulare un giudizio sulla riuscita complessivadella strategia sulla quale si basa il piano di sviluppo e ricostruzione.Alcuni indicatori, come la crescita dell’industria e l’occupazione, mostranoad esempio un andamento positivo. Tuttavia, nel suo insieme il RDP si starivelando un mezzo fallimento. Le risorse finanziarie ad esso destinatesono state utilizzate in quantità limitatissima a causa della macchinositàdelle procedure, problemi amministrativi e una scarsa definizione dellecompetenze relative del centro e delle amministrazioni provinciali.
Il settore pi deludente si sta rivelando quello delle abitazioni, nel qualesono state costruite con sovvenzioni governative solo 37mila abitazioninel 1994/95, contro le 200mila previste dal piano. Risultati migliori sisono avuti invece nella fornitura di energia elettrica alle famiglie daparte della compagnia parastatale ESKOM, che ha leggermente superato gliobiettivi fissati (oltre 550mila allacciamenti nel biennio 1994-95). Maquesto progresso è dovuto solo marginalmente ai finanziamenti delRDP in quanto l’ESKOM ha provveduto ha reperire autonomamente le proprierisorse sul mercato. Cifre simili si riscontrano per gli allacciamenti allarete idrica, mentre sono state costruiti 173 nuovi centri sanitari di basenelle aree rurali. Per quanto riguarda la sanità, in marzo il governoha inoltre approvato il varo della prima fase di realizzazione del nuovosistema sanitario nazionale che, a partire dal 1 luglio ‘96, garantiràa tutti i sudafricani i servizi sanitari essenziali. Non è chiarotuttavia dove saranno reperite le risorse necessarie per il servizio, icui costi – secondo alcuni analisti – sono sottostimati dal governo.
Per far fronte alle difficoltà incontrate dal RDP Ë stato varatoun nuovo documento programmatico, dotato di un finanziamento complessivodi 15 miliardi di R, dei quali 7,5 per il 1996-7. Il nuovo piano ha dueobiettivi principali. In primo luogo, una crescita economica del 6 % annuo(attualmente le stime prevedono un tasso di crescita del 3,5-4% per il 1996)e la creazione di 500mila posti di lavoro l’anno da qui al 2000. Tale crescitadovrebbe essere stimolata da un aumento dell’investimento pubblico e privatoe dell’export non-aurifero del 10% l’anno. In secondo luogo, il raddoppiodella quota di reddito nazionale dei più poveri e la fornitura diservizi essenziali all’intera popolazione entro il 2005.
Gli elementi-chiave della nuova strategia sono individuati in: consistentiinvestimenti nell’istruzione e nella formazione professionale; un pianonazionale per la prevenzione della criminalità; la ristrutturazionedi industrie e servizi per stimolare la creazione di lavoro e la competitivitàinternazionale; la trasformazione del settore pubblico; la creazione diun sistema di sicurezza e sviluppo sociale mirato ai settori piùpoveri.
Il lancio di importanti programmi sociali sta premendo, e rischia di premereancor più nel prossimo futuro, sulle risorse del bilancio statale,un problema aggravato dal sostanziale incremento degli addetti dell’amministrazionepubblica a tutti i livelli seguita all’incorporazione degli ex-bantustan.Secondo il budget 1996-97, presentato in marzo, il deficit di bilancio èdi quasi 28 miliardi di R, pari a poco pi del 5% del PIL, ma l’obiettivoË di ridurlo ulteriormente a circa il 4% del PIL nel 1998-99. Il problemamaggiore è rappresentato dal debito pubblico, il cui costo èstimato a oltre 34 miliardi di R, pari al 20 % della spesa statale (in aumentoquindi rispetto al 18,5% dell’anno scorso).
La necessità di tenere sotto controllo deficit e debito pubblicohanno ravvivato negli ultimi mesi la questione delle privatizzazioni dall’ampiosettore parastatale, aprendo uno scontro piuttosto acceso tra il governoe i sindacati. Tutte le maggiori forze sociali hanno presentato documentiprogrammatici, dalla organizzazione degli imprenditori South African Foundation(“Growth for all”) ai sindacati (“Social equity and job creation- the key to a stable future”) alle organizzazioni civiche, che hannoprodotto una prima bozza di documento.
Al centro della discussione è l’intera strategia di politica economicae sociale, e le priorità relative, sulle quali le posizioni appaionoancora piuttosto distanti tra imprenditori e sindacati. In particolare,il nodo di pi difficile risoluzione rimane quello delle privatizzazionidelle imprese parastatali, i cui proventi andrebbero a coprire il buco dibilancio assieme ai risparmi che dovrebbero essere consentiti da un pianodi riduzione della spesa per l’amministrazione pubblica. I sindacati sioppongono tuttavia con grande decisione alle privatizzazioni, proponendoin alternativa una “ristrutturazione” delle imprese parastataliper renderle commercialmente pi redditizie e profittevoli.
La questione si è tradotta in un inasprimento delle relazioni trai sindacati e il governo a maggioranza ANC, tanto che a metà marzoJames Motlatsi, presidente del potente sindacato dei minatori NUM, èarrivato a suggerire la necessità di una revisione dell’alleanzatripartita COSATU (Congress of South Africa Trade Unions), ANC e PartitoComunista, che ha costituito il nerbo dell’opposizione all’apartheid e cheoggi costituisce la spina dorsale politica e sociale del nuovo governo.Secondo alcuni membri del sindacato, l’alleanza limiterebbe troppo lo spaziodi azione delle organizzazioni sindacali, rischiando di ridurne la strategiaalle politiche del governo, che peraltro starebbe seguendo una sua agendaautonoma, sempre piò distante dalle priorità individuate dalsindacato.
Lo scontro aperto sembra per ora sembra essere stato evitato con il ricorsoa formule ambigue riguardo le privatizzazioni come quelle contenute nelnuovo budget 1996-97 che non prevede alcuna entrata derivante dalla cessionedelle imprese pubbliche almeno per l’anno finanziario in corso. Ma la questionesembra essere solo rinviata. La ristrutturazione della gestione del RDPin seno al governo, l’ascesa di Thabo Mbeki a scapito di Ramaphosa, l’emarginazionedei settori critici dell’ANC più legati al mondo del lavoro, cherisultano dal rimpasto governativo ricordato in apertura, tendono a prefigurareuna risoluzione della questione sfavorevole per il ruolo politico, di partnerdi “governo”, del sindacato, con una possibile ripresa dello scontrosociale.
COMPOSIZIONE DEL GOVERNO SUDAFRICANO (*)
(aprile 1996)
Presidenza
Presidente: Nelson Mandela (ANC)
Vice-presidente: Thabo Mbeki (ANC)
Vice-Presidente: F.W. de Klek (NP)
Ministri
Risorse idriche e forestali: Kader Asmal (ANC)
Istruzione: Sibusiso Bengu (ANC)
Miniere ed energia: Pik Botha (NP)
Interni: Mangosuthu Buthelezi (IFP)
Ambiente e turismo: Dawie de Villiers (NP)
Terra: Derek Hanekom (ANC)
Trasporti: Mac Mahara (ANC)
Finanze: Trevor Manuel (ANC)
Lavoro: Tito Mboweni (ANC)
Difesa: Joe Modise (ANC)
Sicurezza: Sydney Mufamadi (ANC)
Servizi di correzione: Sipo Mzimela (IFP)
Poste, telecomunicazioni, radio: Jay Naidoo (ANC)
Arte, cultura, scienza, tecnologia: Ben Ngubane (IFP)
Affari esteri: Alfred Nzo (ANC)
Lavori pubblici: Jeff Radebe (ANC)
Imprese pubbliche: Stella Sicgau (ANC)
Amministrazione pubblica: Zola Skweyiya (ANC)
Sport: Steve Tshwete (ANC)
Agricoltura: Kraai van Niekerk (NP)
Sanitý: Nkosazana Dlamini-Zuma (ANC)
Abitazioni: Sankie Mthembi-Nkondo (ANC)
Affari provinciali e sviluppo costituzionale: Chris Fismer (NP)
Servizi generali: John Mavuso (NP)
Welfare e popolazione: Patrick McKenzie (NP)
Commercio e industria: Alec Erwin (ANC)
(*)
ANC: African National Congress;
NP: National Party;
IFP: Inkatha Freedom Party.
Secondo la Costituzione transitoria, tutti i partiti che alle elezioni politicheavessero raggiunto la soglia del 5 % dei votanti avevano diritto di entrarenel governo di unità nazionale con propri ministri. Nelle prime elezionidel 1994 tale soglia è stata raggiunta da ANC, NP e IFP. La stessaCostituzione prevedeva inoltre che i partiti con almeno il 20 % dei consensielettorali avessero diritto a una vice-presidenza.