Modificare i virus per combattere le prossime pandemie potrebbe essere molto pericoloso

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(Foto: Nils Bouillard on Unsplash)

Covid-19 ci ha colto impreparati. E per evitare che succeda di nuovo una parte della comunità scientifica preme per moltiplicare gli sforzi che puntano a prevedere quali virus potrebbero causare la prossima pandemia. Studiare i virus animali prima che compiano il famoso salto di specie, così da farsi trovare pronti in caso di necessità; andandoli a scovare in natura, e magari manipolandoli in laboratorio per verificarne il potenziale zoonotico, e i rischi che comporterebbero una volta adattati alla nostra specie. Non tutti, però, concordano: negli Usa è in corso un acceso dibattito sull’opportunità di regole più stringenti per queste ricerche, definite “gain of function”, che prevedono la creazione in provetta di nuovi patogeni potenzialmente letali. Il rischio, secondo gli scettici, è che giocando troppo con virus che al momento non rappresentano un pericolo per l’uomo, gli sforzi per prevenire la prossima pandemia finiscano, paradossalmente, per provocarla.

Il dibattito in America

Il dibattito sugli studi di gain of function ha guadagnato l’attenzione globale nel 2011, quando ben due gruppi di ricerca, uno olandese e uno nippo-ammericano, hanno annunciato di aver modificato il virus dell’influenza aviaria H5N1, rendendolo capace di infettare efficacemente i furetti per via aerea. All’epoca, in molti definirono il nuovo virus il patogeno più pericoloso del mondo, e per un’ottima ragione: l’influenza aviaria è una malattia estremamente infettiva (almeno negli uccelli) e drammaticamente letale, con una mortalità che nell’uomo si aggira attorno al 60% degli infetti. L’unica cosa che ha impedito fino ad oggi a questo virus di provocare una pandemia catastrofica è il fatto che la trasmissione tra esseri umani è pressoché impossibile. Tutti i casi noti risalgono infatti a infezioni contratte dal contatto con uccelli malati, e anche così la trasmissibilità del virus alla nostra specie è estremamente bassa. Un virus H5N1 in grado di infettare i furetti, però, è ben altra cosa: il passo per l’infezione tra uomo e uomo è molto più breve, anzi, praticamente scontato.

L’obbiettivo dei ricercatori, ovviamente, era quella di studiare più a fondo i rischi pandemici dell’aviaria e i meccanismi di infezione del virus, per portarsi avanti nello sviluppo di vaccini o terapie. Secondo molti altri scienziati, però, i rischi che il virus sfuggisse dai laboratori in cui era custodito (o peggio, che qualche entità male intenzionata potesse sfruttare le ricerche per trasformarlo in un’arma biologica), superavano di molto i potenziali benefici. Sulla scia di un dibattito che vedeva spaccata la comunità scientifica (e non solo), due incidenti avvenuti nel 2014 nei laboratori americani di massima sicurezza, in cui il personale aveva rischiato di rimanere esposto ad antrace e virus dell’influenza aviaria, gli Stati Uniti decisero di ordinare uno stop temporaneo alle ricerche gain of function, bloccando per tre anni i finanziamenti statali in quest’area.

La moratoria è scaduta nel 2017, con l’approvazione di nuove linee guida per il finanziamento di ricerche gain of function che prevede una valutazione ad hoc di ogni progetto. Le nuove norme avrebbero dovuto placare i dubbi degli scettici, ma ad appena due anni dalla loro applicazione il National Institute of Health (Nih) ha approvato il finanziamento di due ricerche volte, nuovamente, a modificare il virus dell’aviaria per renderlo più pericoloso per gli esseri umani. Le polemiche sono riprese, e l’Nih ha deciso di aprire una consultazione pubblica sul tema. La prima sessione si è svolta lo scorso 27 aprile, e come riporta un articolo di Nature, ha visto la partecipazione di un nutrito gruppo di esperti di virologia e di biosicurezza, che hanno chiesto l’inasprimento delle norme che regolano le ricerche in cui i patogeni vengono resi più letali o più trasmissibili, e l’estensione delle regole anche al di fuori del National Institute of Health, per raggiungere tutte le agenzie federali, e anche entità private come case farmaceutiche e istituzioni filantropiche.

Il pericolo è reale?

Il pericolo delle ricerche gain of function è legato al rischio che un incidente causi la fuoriuscita di virus e batteri pericolosi dai laboratori. E purtroppo, casi del genere non sono mancati anche negli ultimi anni. Nel 2014, Usa Today riferiva ad esempio di aver ottenuto dai Centers for Disease Control and Prevention una serie di documenti che provavano oltre 1.100 incidenti avvenuti nei laboratori americani tra il 2008 e il 2012, nei quali il personale era stato esposto a virus, batteri o tossine potenzialmente pericolosi. Nel 2016, il primo rapporto ufficiale sulla sicurezza dei laboratori americani rivelava ben 199 incidenti avvenuti nel solo 2015. In un caso, il personale del laboratorio era stato infettato dal batterio Coxiella burnetii, agente causativo della febbre Q, una patologia che raggiunge una letalità del 38% in caso di malattia sintomatica, e che è stata studiata e sviluppata come arma biologica fino agli anni ‘60 dall’esercito americano.

Un incidente, ovviamente, non si traduce necessariamente in un contagio o in un’epidemia. Un rapporto dei Cdc del 2012 però ci aiuta a capire quanto spesso il rischio si sia presentato negli ultimi anni. Tra il 2004 e il 2011 in America ci sono stati infatti ben 11 casi confermati di infezioni contratte durante un incidente di laboratorio, di cui 4 avvenute in laboratori con livello di biosicurezza 3, appena al di sotto di quelli a biosicurezza 4 in cui vengono gestiti patogeni con acclarate capacità pandemiche, come Ebola o il virus Marburg. E persino in questi fortini della scienza non sono mancati i problemi. Lo conferma un documento del Government accountability office: 21 casi confermati di agenti patogeni non neutralizzati correttamente (e quindi entrati in contatto con il personale privo dei dovuti dispositivi di sicurezza) nei laboratori americani, di cui diversi avvenuti in laboratori con livello di biosicurezza 4, che hanno coinvolto proprio Ebola e il virus Marburg.

I pericoli insomma sembrano purtroppo sono inevitabili. E crescono al crescere del numero di laboratori che maneggiano virus pericolosi. In molti casi, si tratta di un rischio di cui non si può fare a meno: per sviluppare un vaccino, un farmaco o un antidoto è necessario studiare virus, batteri e tossine letali, e il rischio di incidenti (comunque estremamente contenuto) è controbilanciato dall’importanza di queste ricerche per affrontare malattie che rappresentano un rischio concreto per l’umanità. Quando andiamo a modificare un virus altrimenti innocuo per la nostra specie, le cose cambiano: il rischio di scatenarlo sull’umanità iniziano ad avere un peso ben diverso nel bilancio con i benefici, del tutto teorici, che potremmo trarne.

Anche perché non è sempre facile stabilire cosa deve essere considerato come ricerca gain of function. Non basta che un virus venga modificato (cosa che si fa fin troppo spesso): l’operazione deve renderlo più pericoloso per la nostra specie, e ovviamente a riguardo si possono avere opinioni molto differenti. Lo dimostrano le polemiche che ancora circondano le ricerche sui coronavirus svolte presso l’istituto di virologia di Wuhan con il supporto del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid). I finanziamenti, infatti, sono arrivati anche durante il periodo in cui era attiva la moratoria americana, e dopo ripetute interrogazioni parlamentari la vicenda si è trasformata ormai in un caso politico (Fauci, direttore del Niaid, è accusato di aver mentito al congresso negando di aver finanziato ricerche vietate), che ruota appunto attorno a cosa considerare, e cosa no, come gain of function.


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E la caccia ai virus?

A questo punto è arrivato probabilmente il momento di affrontare l’elefante nella stanza: l’ipotesi del lab leak, cioè che l’attuale pandemia di Covid-19 sia iniziata proprio nei laboratori dell’istituto di virologia di Wuhan. Certezze a riguardo non ce ne sono. Ma nell’ultimo anno sono emerse prove convincenti che dimostrano che nei laboratori della città cinese, posti a pochi chilometri dal mercato dove si ritiene abbia avuto luogo il primo focolaio di Covid-19, venivano effettivamente effettuate ricerche che puntavano a modificare i coronavirus Sars like (quelli di cui fanno parte la Sars e Sars-Cov-2) per studiarne i rischi pandemici.

Se sia stato durante questi esperimenti che ha avuto origine Sars-Cov-2 è impossibile dirlo (la maggioranza degli esperti al momento nega che il virus abbia caratteristiche riconducibili ad un’origine artificiale). Così come è impossibile stabilire se sia stato un incidente di laboratorio a diffonderlo nel vicino mercato, dando inizio alla pandemia. Quel che è certo è che il fatto che la struttura fosse situata così vicino all’epicentro della pandemia, e che il suo laboratorio con livello di biosicurezza 4 (dove si studiava il virus della Sars) avesse aperto i battenti appena due anni prima, è quanto meno curioso. Questo, unito alla ritrosia nel rivelare le ricerche portate avanti dall’istituto dimostrata dal governo cinese, dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme. Soprattutto per quanto riguarda il futuro.

È nei laboratori come quello di Wuhan, infatti, che vengono raccolti i nuovi virus scoperti in pipistrelli, pangolini e altri potenziali reservoir animali. E basta un po’ di sfortuna, un incidente che metta in contatto lo staff con un campione contaminato da un virus capace di effettuare il salto di specie, per dare il vira a una pandemia, anche senza bisogno di pericolosi esperimenti di gain of function. Prima dell’arrivo di Covid, l’ististuto di ricerca EcoHealth Alliance (di cui Peter Daszak è il presidente) aveva collaborato con l’istituto di virologia di Wuhan per anni, all’interno di programmi come il progetto Predict (finanziato con 200 milioni di dollari dal governo americano), accumulando oltre 15mila campioni biologici di pipistrelli selvatici, e scoprendo circa 400 nuovi virus animali, di cui una cinquantina appartenenti alla famiglia della Sars.

L’idea alla base di queste ricerche è che una mappatura sufficientemente completa dei virus presenti in natura e pronti per un salto di specie permetterebbe di prevedere quali patogeni pongono i rischi maggiori, e attrezzarsi per prevenire eventuali problemi. Sulla spinta dell’emergenza degli ultimi due anni, il governo americano sembra ora intenzionato ad aumentare gli sforzi in questo campo. Ad ottobre ha infatti annunciato il lancio di un nuovo programma, chiamato Discovery & Exploration of Emerging Pathogens – Viral Zoonoses (Deep-Vzn), che investirà 125 milioni di dollari nei prossimi cinque anni per finanziare la raccolta e lo studio di virus animali potenzialmente pericolosi. Simile anche l’obbiettivo dei Centers for Research in Emerging Infectious Diseases (Creid), un network di istituti e laboratori (di cui farà parte, ancora una volta, EcoHealth alliance) dedicati alla mappatura dei virus con potenziale zoonotico, e finanziati a partire dal 2020 dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases con circa 17 milioni di dollari l’anno.

“Cercano i virus che sembrano più pericolosi, li portano in laboratorio, e ci fanno degli esperimenti per determinare quali rappresentino un rischio pandemico”, ha raccontato a Vox Kevin Esvelt, un biologo dell’Mit esperto di gene drive e bioetica. “Nel momento in cui li porti in laboratorio e inizi a lavorarci, stai correndo il rischio di scatenare accidentalmente una pandemia”.

Con il moltiplicarsi di laboratori che lavorano su virus animali con alto potenziale pandemico, i rischi di errori e incidenti non faranno che aumentare. E anche in questo caso, i potenziali benefici non sembrano controbilanciare il pericolo. La ricerca e lo studio dei virus animali va avanti da decenni, e di risultati concreti in termini di prevenzione o di nuove terapie e vaccini, stentano ad arrivare. Un grande avversario di questa strategia è (o era almeno fino a qualche anno fa) il virologo Kristian Andersen, dello Scripp Research Institute (nel 2020 il suo laboratorio è entrato a far parte della rete dei Creid). In un commento pubblicato nel 2018 su Nature insieme ai colleghi Edward Holmes e Andrew Rambaut, si esprimeva così a proposito delle ricerche che vogliono prevedere le prossime pandemie zoonotiche: “Le mappature genomiche su ampia scala dei virus animali aumenteranno certamente la nostra conoscenza riguardo alla diversità e all’evoluzione dei virus. Ma a nostro parere avranno un’utilità estremamente limitata comprendere come nascano le malattie e come prevenirle”.

Via: Wired.it

Credits immagine: Nils Bouillard on Unsplash