NELLA FAMIGLIA di Luca, un bimbo di due anni, la diagnosi era arrivata come un fulmine a ciel sereno: sindrome dell’X fragile. Il piccolo era stato ricoverato per una brutta broncopolmonite. Ma i medici volevano vederci chiaro, e tra gli esami prescritti era finito anche un test genetico. Un esame dimenticato per mesi, fino a quando, con Luca guarito e ormai a casa, era arrivata la telefonata dell’ospedale: il bambino presentava una mutazione genetica sul cromosoma X. “La notizia – racconta Viviana, la mamma – ci ha catapultato all’improvviso in un mondo sconosciuto. I medici ci rassicurarono subito: la sindrome dell’X fragile non era una malattia mortale. E però, aggiunsero, è una condizione per la quale non esiste cura. Nostro figlio avrebbe avuto dei ritardi cognitivi e comportamentali non prevedibili. Ci consigliarono sedute di logopedia e psicomotricità”. Ma senza senza suggerire dove, come, quando.
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