Il batterio più longevo del mondo

Avrebbe 250 milioni di anni. E sarebbe quindi l’essere vivente più vecchio del mondo. Il longevo in questione è un batterio appartenente alla specie Bacillus, designato dalla sigla 2-9-3 e ritrovato in un cristallo salino prelevato nella Permian Salado Formation negli Stati Uniti. E’ quanto emerso da uno studio condotto da Russel H. Vreeland e William D. Rosenzweig, del Dipartimento di biologia della West Chester University in Pennsylvania e da Dennis W. Powers, consulente geologo, apparso questa settimana su Nature. Se la loro scoperta fosse confermata verrebbe ‘stracciato’ il record di longevità, detenuto da un microrganismo isolato cinque anni fa a cui era stata attribuita un’età compresa fra 25 e 40 milioni di anni. Ma soprattutto Bacillus potrebbe avere un’origine extraterrester e aprire così interessanti prospettive a quanti pensano sia possibile far viaggiare forme di vita semplici nello spazio. La novità della scoperta americana sta anche nel metodo utilizzato: la sterilizzazione del minerale che lo conteneva non lascia dubbi sulle possibili contaminazioni esterne. Delle novità e delle prospettive che la scoperta del Bacillus porta con sè abbiamo discusso con William Rosenzweig, uno degli autori dello studio.

Vivere 250 milioni di anni ha davvero dell’incredibile. Come ha fatto questo batterio a resistere così a lungo?

“In condizioni avverse alcuni microrganismi sviluppano strutture moilto resistenti dette spore. Le spore possono sopravvivere in condizioni ambientali difficili, come il calore. Possono resistere con un metabolismo rallentato o addirittura annullato, o senza respirare fino a quando le condizioni ambientali non ritornano favorevoli. A questo punto le spore germinano e viene prodotta una nuova cellula batterica”.

Se un organismo può vivere così tanto tempo, non potrebbe addirittura vivere in eterno?

“Nessuno può dire con sicurezza quanto a lungo possano sopravvivere le spore. Se il nostro esperimento verrà confermato, si potrà affermare che le spore sono in grado di vivere almeno 250 milioni di anni. Se non subissero alterazioni dall’ambiente esterno probabilmente sopravviverebbero in eterno”.

Quali sono le implicazioni della vostra scoperta?

“Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Uno degli aspetti più interessanti di questo studio è l’applicazione alla ricerca di possibili forme di vita su altri pianeti. Pensiamo che circa un miliardo di anni fa su Marte ci fosse acqua. Ora noi abbiamo dimostrato che un batterio può sopravvivere 250 milioni di anni in un cristallo di sale. Se ci fosse sale su Marte, formatosi quando l’oceano è evaporato, allora questo potrebbe essere il posto giusto per cercare tracce di vita. Inoltre il meteorite Monahans, arrivato in Texas alcuni anni fa, e formatosi 4,5 miliardi di anni fa, conteneva sale, in parte depositatosi nelle cavità dei frammenti, proprio come nei campioni da noi studiati”.

Perché avete cercato il batterio proprio nella Permian Salado Formation?

“Abbiamo scelto di lavorare con frammenti del Salado perché nostri esperimenti precedenti condotti lì avevano dato esiti positivi. Il Salado è infatti fra i depositi salini più studiati e classificati di tutti gli Stati Uniti, e sia la geologia di questa formazione sia l’età di sedimentazione sono documentate da un’estesa letteratura, cui ha contribuito in modo rilevante Dennis Powers”.

Come potete essere certi che il batterio sia davvero così vecchio?

“Uno dei problemi maggiori in questo tipo di lavoro è assicurarsi che l’organismo isolato non sia contaminato da esemplari moderni. La differenza più significativa fra il nostro lavoro e quelli svolti in passato è proprio nel livello di sterilizzazione che siamo stati in grado di raggiungere. Lavorando con nuove strumentazioni siamo riusciti a ottenere una sterilizzazione sia della superficie del cristallo salino, sia di tutte le apparecchiature usate durante l’isolamento del batterio. In questo modo la probabilità di contaminazione si riduce a uno su un miliardo. Inoltre abbiamo applicato un rigido protocollo di selezione dei cristalli prelevati, selezionando solo quelli primari e inalterati, e scartando tutti quelli che presentavano una alterazione rispetto al momento in cui si erano depositati. Dei 100 chilogrammi di campioni di cristalli raccolti solo 1 è stato utilizzato nella ricerca”.

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