Quando i migranti esportavano le viti italiane nel mondo

    Quando i nostri nonni emigravano in tutto il mondo, insieme all’iconica valigia di cartone, o forse proprio al suo interno, portavano con se anche tralci e talee della loro pianta preferita: la vite. È questa l’immagine che ci restituisce la ricerca coordinata dalla Sapienza, che si propone di tracciare la strada e l’influenza sul paesaggio dei vitigni nostrani portati dagli emigranti in giro per il mondo. Una ricerca che si sposta in 19 paesi, dall’America all’Africa, dall’Australia alla più vicina Europa, raccogliendo storie, testimonianze e immagini di un percorso eno-culturale ampio e variegato. Lo studio è ora diventato un libro, intotolato “Nel solco degli emigranti. I vitigni italiani alla conquista del mondo” (a cura di Flavia Cristaldi e Delfina Licata; ed. Bruno Mondadori, 2015) in uscita in questi giorni, che sarà presentato presso il Museo della Emigrazione italiana al Vittoriano di Roma il 28 aprile, un appuntamento per il quale è previsto un allestimento temporaneo di fotografie d’epoca. Il volume che raccoglie i risultati della ricerca ha conquistato inoltre un passaggio all’Expo 2015, previsto a giugno.

    Le storie e gli aneddoti che si intrecciano sono tra i più vari: dalle donne che mimetizzavano i tralci nelle gabbie delle galline per superare i controlli in Tunisia – dove forte era la resistenza francese ad avere concorrenza in materia enologica; alle pergole fatte dai nostri connazionali coi tubi del gas dismessi nella città di Toronto e al ruolo inedito dei missionari come divulgatori del sapere vinicolo, indotti dalla necessità di celebrare Messa e confezionare vino in ogni dove. Portare un tralcio di vite dall’Italia ha significato portare con sé la propria cultura e la propria tradizione, un segno tangibile della identità in un luogo altro.

    La ricerca, condotta in sinergia con la Fondazione Migrantes e con la Società Geografica Italiana, nasce da un’idea di Flavia Cristaldi, docente di Geografia delle Migrazioni e si avvale della competenza di geografi, sociologi, agronomi, winemakers, demografi, architetti e giornalisti. “Il nostro obiettivo è quello di rin-tracciare i vitigni italiani sul territorio e considerare gli effetti che la sapienza vitivinicola, partita dalle diverse regioni italiane prima con i sacchi di iuta e le valige di cartone poi, ha depositato sul territorio, sia a livello paesaggistico che architettonico e toponomastico, trasformandolo anche profondamente”, spiega Cristaldi. “Ad esempio nel mio soggiorno in Brasile mi sono imbattuta in una cittadina dove la toponomastica stradale “racconta” la colonizzazione italiana attraverso i nomi dei vitigni arrivati con i migranti già sul finire dell’Ottocento, Rue Uva Italia o Rue Moscato, o ancora Rue Barbera e dove un’improbabile statua del leone di San Marco troneggia nella piazza principale.”

    Ma ancora oggi c’è molto da scoprire e da esportare, come ci mostrano le storie e le foto dei nuovi migranti del vino, come i nostri enologi ricercatissimi in India e in Cina, che stanno contribuendo a diffondere un tratto così identitario della nostra cultura. Affinare il palato di consumatori impensati è la scommessa del futuro, che come evidenziato nella ricerca, giocheranno un ruolo non banale nell’apertura di nuovi mercati.

    Riferimenti e credits immagine: via Sapienza Università di Roma

    Se avete ricerche e studi da segnalare alla redazione per la rubrica “Ricerca d’Italia” scrivete a redazione@galileonet.it

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